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Il Natale di una volta nella nostra Comunità

Dopo il Ventennio, terminato il secondo conflitto mondiale, e fino agli anni ‘60, gli italiani riscoprirono la triste realtà dell’emigrazione. I tempi erano difficili e l’arrivo massiccio di emigranti italiani non sempre era visto di buon occhio dai locali. Gli italiani, in genere, erano ancora considerati “alien enemy’’, gli ex nemici in guerra. Generalmente ai nuovi arrivati erano riservate le occupazioni scartate dai locali e i lavori più duri ed estenuanti. Non erano rari gli episodi discriminatori animati da spregevole xenofobia. Ricordo che fino al principio degli anni sessanta del secolo scorso, vi furono locali che arboravano ancora la scritta: “Entrée interdite aux italiens” (Entrata proibita agli italiani).

 

Oggi alle nuove generazioni questo può sembrare incredibile. Eppure questo è stato il clima sociale che, aggiunto alla nostalgia, indussero la nostra Comunità del passato a raggrupparsi e rifugiarsi nelle tradizioni e nelle ricorrenze lasciate in Italia. Fra le tante tradizioni, tra cui sagre, processioni, carnevale, ecc., quella più sentita e osservata erano i preparativi per le festività del periodo natalizio, con tutto il loro corteo di usanze, che culminavano con i veglioni e il giorno di Natale e Capodanno. Ricordo la Rue Dante, cuore della Piccola Italia di Montréal. In quegli anni “Dante’’ costituiva un vero villaggio italiano, incuneato nella metropoli di Montréal. Nel periodo natalizio le strade del quadrilatero St-Denis-Beaubien-St-Urbain-Jean-Talon si animavano di massaie intente alle compere e preparativi delle festività natalizie. Per l’occasione gli uomini affollavano bar e ritrovi ormai spariti, come il Bar Sport, Juventus, Genova, Pierino, Club Gentile Dieni, Pizzeria Dante, Bar-Pizzeria Napoletana, ecc. per un buon bicchiere insieme. Si sentivano tutti i dialetti, ma uno solo era il cuore che palpitava in quel sacro periodo. Tutte le ansie e le preoccupazioni dell’anno venivano accantonate e si rinnovava e viveva “un’atmosfera del focolare lontano”. 

 

Nell’imminenza del Natale, volti abbronzati e corrugati dalle preoccupazioni e dal lavoro, sorridenti, salutavano amici e conoscenti. In ogni casa, un angolo privilegiato era riservato al Presepe. Quanta cura, quanto zelo nell’allestimento della natività. La preparazione del Presepe era un rituale che reiterava tempo e spazio, riportando quella povera gente al focolare natìo, alla famiglia lasciata. Molti nella traversata si erano affidati al santino del protettore del paese lasciato, facendo tesoro dei simboli più cari dei loro ricordi; come pastori e personaggi del Presepe del focolare natìo. Non esagero nel considerare quei simboli un po’ ciò che furono i Penati per gli antichi; infatti, per l’emigrante questi simboli rappresentavano valori tradizionali, propiziatori e tutelari nella loro odissea. Erano appunto quei valori che venivano ricordati e venerati nelle festività Natalizie. Puntualmente, a mezzanotte della vigilia natalizia le stesse abitudini, gli stessi rituali: non si contavano i secondi per il brindisi augurale, ma la famiglia riunita, al rintocco della mezzanotte, lasciava il tavolo del pasto della vigilia e, attorniata al presepe, intonava in coro: “Tu scendi dalle stelle….”. Santa semplicità che rifletteva una purezza certosina.

 

Il resto era tutto un ripetere e conservare usi, costumi e folclore dei rispettivi villaggi natii. Alla tavolata della vigilia regnava sovrano il pesce ed il famigerato capitone. Dopo la mezzanotte, le massaie e le giovinette appena ritornate dalle funzioni religiose erano occupate ai fornelli per preparare le famose zeppole, struffoli, crostoli, chiacchiere o guanti. Gli uomini giocavano il loro tresette, interrotti da allegre brigate di amici o parenti che facevano il giro per un buon bicchiere augurale. Il giorno di Natale era d’obbligo per i giovinetti fare il giro dei parenti o amici intimi per “portar gli auguri’’. Natale  non era l’occasione per i regali (questo era riservato alla Befana). Al pranzo natalizio, ansiosi, i ragazzi aspettavano la reazione del papà, quando scopriva sotto il suo piatto una letterina augurale… ed un pacchetto di sigarette. Un rituale a cui il papà si prestava volentieri, fingendo di trovare anormale quell’instabilità del suo piatto. Poi, assieme ad altre delizie, arrivava finalmente il “cappone’’ fumante (ricordo del pollo natalizio del villaggio natìo, dalla carne tenera e squisita, perché castrato ancor giovane appositamente per l’occasione); continuavano a chiamarlo “cappone” anche se qui localmente si trattava di un grosso pollo o tacchino. Queste usanze furono osservate fino a recentemente. Purtroppo le nuove generazioni, nate qui, non “sentono” allo stesso modo.

 

Però le famiglie ancora si riuniscono al veglione e il giorno di Natale, anche se aragoste, gamberi e granchi hanno sostituito le umili sardine, alici, baccalà, spaghetti alle vongole e capitone del veglione di una volta. Come ormai rari sono i presepi; regna sovrano l’albero di Natale. A mezzanotte rari anche il brindisi col vino, sostituito da champagne, spumante o prosecco. Man mano, al fine di riunire più generazioni della stessa famiglia, c’è la progressiva tendenza di celebrare e festeggiare il Natale in famiglia “allo chalet’’, spesso sulle rive di un lago ove la mezzanotte è accolta con un gran falò. Un rituale atavico, con cui la Natività ricorda all’umanità la semplicità di un simbolo eterno e archetipale: il Solstizio: momento magico dell’anno, in cui l’Eroe Solare rinasce nella Luce trionfante, dando inizio ad una nuova fase ascendente sulle tenebre!  

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