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Il mulo nel cuore e nell’epopea alpina

Il mulo è entrato nella letteratura alpina quale insostituibile modello operativo per muovere in montagna, in situazioni estreme. La sua potenza, la sua grande generosità, la sua spiccata sensibilità e rusticità resteranno nella storia. Gli Alpini lo ricorderanno con affetto e malinconia. E la montagna, l’alta montagna, quando sarà violata dallo stridente rombo di motori costruiti dall’uomo, rimpiangerà il genuino e romantico nitrito del mulo. Ecco una testimonianza diretta di Beppe Boni, scritta in occasione della morte dell’ultimo “mulo congedato a riposo”, Iroso.

“I muli e gli Alpini costituiscono un’unica epopea. Il cammino lo hanno cominciato insieme, nel 1872, quando nacque il corpo. Da allora i muli sono stati ovunque fedeli alleati dei soldati. Soprattutto nella Guerra bianca del primo conflitto mondiale, senza questi animali le Penne nere non avrebbero mai portato fino a quota di 3 mila metri salmerie, obici, cannoni, munizioni, mitraglie e ogni altra diavoleria che poteva servire per costruire basi, capisaldi, batterie per i reparti. A questo animale gli Alpini sono affezionati e anche le ultime generazioni lo celebrano come un simbolo senza il quale la loro storia avrebbe preso una strada diversa. Ma perché gli Alpini scelsero il mulo?

Non è un animale esistente in natura bensì un incrocio, che nasce sterile, fra un asino e una cavalla. Proprio per questo è un soggetto da soma col piede sicuro, resistente alle malattie, coraggioso, capace di grandi sforzi e resistenza su percorsi in salita di grande difficoltà. Capite perché i sentieri più scoscesi si chiamano mulattiere. L’esercito fin dai primi del Novecento li divise in tre categorie che rispettavano criteri di potenza fisica: muli di prima, seconda e terza classe. I primi, più forti e robusti, erano destinati al trasporto di pezzi di artiglieria e armi pesanti, gli altri di dimensioni più ridotte portavano munizioni, tende, cibo, suppellettili. Senza i muli la guerra di montagna sarebbe stata un’altra storia.

Il mulo, amico in pace e in guerra. Un’unica epopea con gli Alpini. Un legame indissolubile legava il mulo e il suo “conducente”. Insieme percorrevano sentieri ad alte quote, scoscesi irti e pericolosissimi, e quando la tormenta naturale o di bombe li investiva, febbrili si avvicinavano l’un l’altro, cercando riparo e incoraggiamento reciproco, sotto un improvvisato rifugio di roccia.

Questi animali sono in grado di percorrere 5 chilometri l’ora su sentieri scoscesi, trasportano fino al 30% del proprio peso e mangiano il 75% della normale razione di un cavallo. Un mulo può marciare per 10-12 ore di seguito fino a percorrere dai 40 agli 80 chilometri al giorno con una soma di 80 chilogrammi. Usare la parola mulo in senso dispregiativo è la cosa più sbagliata del mondo. Ora gli eserciti utilizzano mezzi meccanici, ma gli Alpini rimpiangono l’antico compagno e ci sono Stati europei come la Francia che lo utilizzano ancora.

Se nella Grande guerra il mulo, presente in oltre 530 mila esemplari, fu fondamentale per la vittoria, anche nel secondo conflitto mondiale l’Italia ne feceancora largo utilizzo. Nei primi anni Novanta del secolo scorso le cinque gloriose Brigate Julia, Taurinense, Cadore, Orobica e Tridentina ne utilizzavano ancora 700. Ma l’ultima adunata dei soldati a quattro gambe si avvicinava. Nel 1991 la Difesa decise che potevano essere sostituiti dai mezzi cingolati. E poco alla volta arrivò il rompete le righe per tutti.

Ecco altre due commoventi testimonianze del legame fra alpini e la figura del mulo:

“Il primo giorno, non conoscendoti bene, avevo un po’ di timore, ma poi è nata un’amicizia. Con quelle grosse orecchie e quel tenero sguardo in quell’imponente corpo. Guardandoti in quegli occhioni grandi dove si scorge tanta tristezza, forse per i maltrattamenti subiti. Non temere, avrò molta cura di te. Sapevi sempre quando arrivavo la mattina, perché ti mettevi a ragliare e quando mi avvicinavo a te mi appoggiavi la testa sulla spalla. Sapevi che nel taschino della mimetica c’era il tuo cioccolato e te lo prendevi. Abbiamo camminato fianco a fianco e bevuto dalla stessa borraccia. Quando ti strigliavo mi sembrava che tu mi sorridessi. Ricordo ancora oggi il campo invernale, il bianco della neve che ci circondava e il freddo. Avevi i baffi ghiacciati in quella stalla fredda dove, quella notte di bufera, il tuo grosso corpo divenne per me un comodo giaciglio. Di te avrò sempre un affettuoso ricordo, caro amico mio.”

(Artigliere Luca Masciadri gruppo “Asiago” – 30ma batteria).

Ecco un’ennesima testimonianza:

“Scodrèra aveva passato il braccio attorno al collo del mulo e col viso appoggiato al muso gli andava accarezzando la mascella. “Non aver paura” – gli diceva lisciandogli il pelo – “ci sono sempre qua io, il tuo padrone non si dimentica di te, stai sicuro: piuttosto che lasciarti fare prigioniero ti sparo, una fucilata in un orecchio. Va bene?”, gli domandava infine sorridendo e tirandogli l’orecchia, e poiché gli era vicino, affettuosamente gliela baciava, senza esitazione e senza pudore…”

(da “Centomila gavette di ghiaccio” di G.Bedeschi).

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