Martedì 19 marzo, alle ore 18.30, presso l’Istituto Italiano di Cultura di Montréal (1200, av. Dr. Penfield), in occasione della pubblicazione della traduzione in inglese del libro Noi però gli abbiamo costruito le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie, l’autore, lo storico Francesco Filippi, terrà una conferenza sull’esperienza coloniale italiana
MONTRÉAL – Del colonialismo italiano in genere non si parla. Si propende a focalizzare – e perlopiù a stigmatizzare – l’imperialismo inglese e/o francese. Solo ad accennare il tema, diventa uno degli argomenti più caldi che ancora oggi accende il dibattito pubblico del Belpaese, animato com’è da sbrigative letture ideologiche che ne impediscono un equilibrato esame storico ed una conseguente riflessione serena. Eppure, stiamo parlando di un fenomeno longevo che ha attraversato un buon tratto della storia italiana. L’Istituto Italiano di Cultura ha organizzato un evento di rilevante interesse storico-culturale proprio per fare mente locale sul controverso periodo coloniale italiano. A tenere la conferenza e ad animare il dibattito, martedì 19 marzo alle 18.30, sarà lo storico della mentalità, Francesco Filippi, autore anche del bestseller Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo. Per l’occasione, ha presentato la traduzione in lingua inglese della sua ultima fatica Noi però gli abbiamo costruito le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie.
“Io sono uno storico della mentalità – così si è presentato Francesco Filippi ai nostri microfoni – quindi mi occupo del rapporto tra memoria e storia e il modo in cui quest’ultima si racconta attraverso gli occhi delle persone sul presente. Dunque, l’effetto che il passato ha nei nostri giorni”.
Gli ho subito chiesto il motivo per cui nei suoi libri tratta tematiche calde che infiammano l’arena pubblica italiana: “Sono sempre molto colpito dal fatto che parlare di questi determinati argomenti, che dovrebbero essere relegati al passato, in realtà sono ancora carne viva all’interno della coscienza pubblica. Parlarne significa mettere la società di fronte ad un problema non ancora digerito. Infatti, in Italia, non abbiamo ancora digerito una buona fetta del passato di questo paese: i vent’anni di fascismo, ma anche di tutto il periodo del colonialismo, iniziato nel 1861”.
Proprio in merito a questo fenomeno storico ha voluto sottolineare: “Spesso, sia in Italia che all’estero, si dimentica che il colonialismo italiano è durato circa 90 anni. Significa che gli italiani sono stati più a lungo colonialisti che fascisti, che repubblicani, che monarchici. Insomma, il colonialismo è una delle caratteristiche fondamentali italiane, che ha attraversato tutte le strutture di governo che questo paese ha avuto: monarchia liberale, fascismo e repubblica”.
Continuando, ha accennato alle sue ragioni storiche: “Il colonialismo in Italia è iniziato tardi rispetto alle esperienze inglesi e francesi ed è arrivato per un motivo non economico, ma quasi antropologico. La prima bandiera tricolore piantata sul suolo africano è del 1869 con l’acquisto della baia di Assab. Gli italiani andavano all’estero con sete di conquista per dimostrare di essere bianchi e superiori. La scelta del colonialismo è avvenuta per emulare il treno di testa della civiltà. Identificativo di questa fame di riconoscimento è l’episodio che fa dell’Italia una colonizzatrice di un pezzo di Cina, la colonia di Tientsin, che per un quarantennio, dal 1901 al 1943, è stata di dominio italiano. Possederla significava affermare che gli italiani facevano parte del mondo dei colonizzatori e non dei colonizzati. È stato un complesso di inferiorità che avrebbe condizionato l’imperialismo italiano. Non era importante costruire identità di carattere economico nelle colonie perché queste avevano un valore di prestigio. Le si facevano comandare dai militari e quindi, per decine di anni, gli indigeni conoscevano l’italiano solo attraverso la divisa e questo ha avuto un impatto psicologico non secondario. Questa dimostrazione porta ad un corollario molto triste: gli italiani sono stati molto più violenti perché non potevano perdere contro gli africani. Per annichilire gli autoctoni si usava ogni mezzo, lecito e anche illecito. Diciamo che la brutalità è stato uno dei segni distintivi di tutta l’avventura coloniale italiana”.
Eppure è diffusa nella coscienza pubblica che l’Italia abbia portato solo migliorie nei paesi colonizzati. Allora ho chiesto il perché di questa differenza sostanziale tra la realtà e l’idea collettiva: “Innanzitutto bisognerebbe porsi la domanda: per chi erano queste infrastrutture e a cosa servivano? Le strade e le opere costruite dagli italiani – tra l’altro molto meno rispetto a quello che veniva lasciato intendere dalla propaganda – servivano a mantenere la conquista, a dominare le popolazione indigene e i quartieri erano costruiti esclusivamente per gli italiani che vivevano nelle colonie. Ma, aldilà di queste costruzioni, dobbiamo pensare che c’è un racconto pubblico molto efficace, mai contrastato, attorno all’avventura coloniale. Avventura, bisogna ricordarlo, che non era una delle priorità della popolazione civile italiana. C’era un forte movimento anticoloniale dato da motivi economici. Erano in tanti a chiedersi perché spendere soldi e costruire all’estero quando l’Italia non aveva per sé strade e infrastrutture. E quindi si contrastava questa lettura con una massiccia propaganda che non è stata solo di stampo fascista, ma che è stata costantemente potentissima in tutto il novantennio del colonialismo”.
Anche qui in Canada è molto diffusa tra gli italo-canadesi, soprattutto tra i più anziani, una percezione positiva del fascismo: “Ho potuto conoscere già lo scorso anno la Comunità italo-canadese di Montréal. È una realtà molto viva e complessa. Ho visto applicati nello specifico alcuni stili di ricordo del passato italiano tipici di un certo tipo di immigrazione. Sicuramente le Comunità italiane in giro per il mondo, come quella di Montréal, durante il periodo pre-seconda guerra mondiale, hanno avuto una forte influenza da parte della propaganda fascista”. Non sorprende, quindi, “questo fenomeno di attaccamento che ogni tanto confonde l’italianità con il fascismo, un errore che si può commettere e si commette in maniera diretta anche in forme più vicine”. Per un emigrante, soprattutto di prima generazione, diventa così “normale che ci si aggrappi a racconti identitari, anche forti, ed è indubbio che il racconto identitario fascista nella realtà del Nord America tra le due guerre sia stato particolarmente potente come conseguenza del forte investimento che fece il fascismo nelle sue Comunità all’estero. E Montréal è ben conscia. La Casa d’Italia racconta anche della spesa economica che fece il regime per essere presente a livello propagandistico all’estero. Una delle capacità del fascismo, se il fascismo ha fatto una cosa buona, è stata raccontarsi”.
Infine, abbiamo chiesto a che punto di “digestione” del passato è il popolo italiano: “Beh, diciamo che avremmo bisogno quanto meno di un digestivo, di un amaro per cercare di capire appieno il XX secolo”, ha detto scherzosamente Francesco Filippi. “Per quanto riguarda il ‘900, la situazione è complessa. Per l’Italia è stato un periodo doppiamente complicato. È il paese che ha inventato il fascismo e lo ha diffuso nel mondo nel 1922. E, quindi, è la nazione che, per prima nella storia, ha subito l’esperimento di ingegneria sociale dei totalitarismi. Ingegneria sociale che continua ancora oggi. Quindi diciamo che oggi l’Italia ha un doppio problema di carattere memoriale: deve innanzitutto assumere la coscienza che, in un paese come il nostro, che non ha fatto i conti con quanto successo in precedenza, parlare di passato non è mai un’operazione neutra, specialmente quando si tratta di un passato prossimo; in secondo luogo, l’Italia ha un rapporto utilitaristico con la propria memoria, cioè si prende il meglio che può. Direi, quindi, che l’Italia, assieme ad altre società occidentali, è in una fase digestiva che è molto lunga e per cui al momento non vedo soluzione”.
Uno scambio veramente pregnante e denso di significati quello avuto con lo storico Francesco Filippi. Mi ha permesso di cogliere la considerazione, da non dare mai per scontata, che nella storia – ma anche nella nostra quotidianità – esistono dei fatti e, contemporaneamente, c’è il racconto degli stessi. Se questo racconto è potente, ripetitivo e convincente si riesce a far dire a questi ciò che vogliamo. È per questo motivo che bisogna capire appieno cosa sia realmente successo. “Digerire il passato” – per utilizzare le parole dell’intervistato – significa comprenderne le ragioni, elaborarle sul piano psicologico-sociale, oltre che sul piano della riflessione personale e collettiva, per capire meglio il nostro presente, cercare di non ripetere errori già commessi e per poter riuscire a gettare solide basi per costruire un futuro migliore, più autentico, più vivibile.