Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche della 60ª Armata Rossa arrivarono ad Auschwitz, scoprendone il campo di concentramento e liberandone i superstiti. L’apertura dei cancelli del lager e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente per la prima volta al mondo l’orrore del genocidio nazista. Fino a quel giorno nessuno sapeva nulla, alcuni ne ignoravano obiettivi e modalità, altri ancora negavano pur sapendo. Fu dunque stabilito dall’ONU che la celebrazione del Giorno della Memoria, come ricorrenza internazionale per ricordare la Shoah, l’Olocausto – lo sterminio del popolo ebraico – coincidesse con questa data. Il 27 gennaio di ogni anno si tengono dunque in tutto il mondo cerimonie, iniziative, incontri di narrazione dei fatti e di riflessione, per reiterare la memoria di questo tragico ed oscuro capitolo della storia europea, affinché simili eventi non possano mai più accadere.
«Ad Auschwitz superai la selezione per tre volte. Quando ci chiamavano sapevamo che era per decidere se eravamo ancora utili e potevamo andare avanti, o se eravamo vecchi pezzi irrecuperabili. Da buttare. Era un momento terribile. Bastava un cenno ed eri salvo, un altro ti condannava. Dovevamo metterci in fila, nude, passare davanti a due SS e a un medico nazista. Ci aprivano la bocca, ci esaminavano in ogni angolo del corpo per vedere se potevamo ancora lavorare. Chi era troppo stanca o troppo magra, o ferita, veniva eliminata. Bastavano pochi secondi agli aguzzini per capire se era meglio farci morire o farci vivere. Io vedevo le altre, orrendi scheletri impauriti, e sapevo di essere come loro. Gli ufficiali e i medici erano sempre eleganti, impeccabili e tirati a lucido, in pace con la loro coscienza. Era sufficiente un cenno del capo degli aguzzini, che voleva dire “avanti”, ed eri salva. Io pensavo solo a questo quando ero lì, a quel cenno. Ero felice quando arrivava, perché avevo tredici anni, poi quattordici. Volevo vivere. Ricordo la prima selezione. Dopo avermi analizzata il medico notò una cicatrice.
«Forse mi manderà a morte per questa…» pensai e mi venne il panico. Lui mi chiese di dove fossi e io con un filo di voce ma, cercando di restare calma, risposi che ero italiana. Trattenevo il respiro. Dopo aver riso, insieme agli altri, del medico italiano che mi aveva fatto quella orrenda cicatrice, il dottore nazista mi fece cenno di andare avanti. Significava che avevo passato la selezione! Ero viva, viva, viva! Ero così felice di poter tornare nel campo che tutto mi sembrava più facile. Poi vidi Janine. Era una ragazza francese, erano mesi che lavoravamo una accanto all’altra nella fabbrica di munizioni. Janine era addetta alla macchina che tagliava l’acciaio. Qualche giorno prima quella maledetta macchina le aveva tranciato le prime falangi di due dita. Lei andò davanti agli aguzzini, nuda, cercando di nascondere la sua mutilazione. Ma quelli le videro subito le dita ferite e presero il suo numero tatuato sul corpo nudo.
Voleva dire che la mandavano a morire. Janine non sarebbe tornata nel campo. Janine non era un’estranea per me, la vedevo tutti i giorni, avevamo scambiato qualche frase, ci sorridevamo per salutarci. Eppure non le dissi niente. Non mi voltai quando la portarono via. Non le dissi addio. Avevo paura di uscire dall’invisibilità nella quale mi nascondevo, feci finta di niente e ricominciai a mettere una gamba dietro l’altra e camminare, pur di vivere. Racconto sempre la storia di Janine. È un rimorso che mi porto dentro. Il rimorso di non aver avuto il coraggio di dirle addio. Di farle sentire, in quel momento che Janine stava andando a morire, che la sua vita era importante per me. Che noi non eravamo come gli aguzzini ma ci sentivamo, ancora e nonostante tutto, capaci di amare. Invece non lo feci. Il rimorso non mi diede pace per tanto, tanto tempo. Sapevo che nel momento in cui non avevo avuto il coraggio di dire addio a Janine, avevano vinto loro, i nostri aguzzini, perché ci avevano privati della nostra umanità e della pietà verso un altro essere umano. Era questa la loro vittoria, era questo il loro obiettivo: annientare la nostra umanità». – Tratto da “Fino a quando la mia stella brillerà” di Liliana Segre.
Ed ecco qui un’altra potentissima testimonianza del 2020 della Senatrice Segre al Parlamento Europeo, che lascia ogni volta senza fiato, anche al centesimo ascolto. Ma cosa resta della Storia se oggi la Russia, che fu responsabile della liberazione di Auschwitz, non viene invitata alle commemorazioni ufficiali e l’Europa perde un’opportunità diplomatica per dimostrare di aver imparato dal passato e che questa Giornata non è di celebrazione ipocrita e vuota? Oggi i leader politici occidentali si battono il petto ricordando gli orrori della guerra, ma continuano ad inviare armi scegliendo ancora un’economia bellica di distruzione, discorsi, e ricostruzione. Un vero peccato.