(Adnkronos) – La luce delle lucciole non accenderà più solo le notti d’estate, ma potrebbe anche illuminare il futuro delle persone con epilessia resistente, forme refrattarie ai farmaci oggi disponibili, che affliggono un paziente su 3. La speranza arriva da uno studio italiano pubblicato su ‘Nature Communications’, condotto da un team dell’Istituto italiano di tecnologia (Iit) coordinato da Fabio Benfenati, in collaborazione con l’Irccs ospedale Policlinico San Martino e l’università di Genova. Il lavoro, finanziato da Iit, San Martino, ateneo genovese e dal programma Prin (Progetti di rilevante interesse nazionale) del ministero dell’Università e della Ricerca, descrive “un approccio innovativo per il trattamento dell’epilessia, che sfrutta la bioluminescenza delle lucciole per prevenire l’iperattività neuronale tipica delle crisi epilettiche”. I primi dati preclinici sono promettenti.
Con 550mila casi in Italia e oltre 50 milioni a livello globale – ricordano dall’Iit – l’epilessia è una delle patologie neurologiche più diffuse, tanto che dal 2020 è stata riconosciuta dall’Organizzazione mondiale della sanità come malattia sociale. E’ caratterizzata da un’eccessiva attivazione di alcuni neuroni, che altera la normale funzionalità del cervello. Sebbene la maggior parte dei pazienti tragga beneficio dalle terapie disponibili, circa un terzo non risponde ancora alle cure. Un’alternativa è offerta dall’optogenetica, tecnica che modifica geneticamente i neuroni affinché esprimano opsine, proteine capaci di influenzare l’attività delle cellule nervose quando esposte alla luce. L’optogenetica permette di bloccare l’attivazione patologica del tessuto neurale patologico, riportando l’attività dei neuroni a livelli fisiologici e disinnescando sul nascere le crisi epilettiche. Questa strategia richiede però l’inserimento di fibre ottiche nel cervello per generare la luce necessaria al funzionamento delle opsine. Per bypassare questo passaggio invasivo, il Center for Synaptic Neuroscience and Technology dell’Iit ha sviluppato un sistema in grado di attivarsi autonomamente e in maniera mirata direttamente all’interno dei neuroni epilettici, riportandoli al loro stato naturale.
“Il nostro approccio si basa su 3 elementi che vengono prodotti direttamente in tutte le cellule nervose grazie alla modifica genetica – spiega Caterina Michetti, prima autrice dello studio, ricercatrice dell’università di Genova e dell’Iit – Si tratta di un’opsina collegata a un sensore e a una molecola bioluminescente, una luciferasi, la stessa proteina che permette alle lucciole di emettere luce. La somministrazione del substrato, sostanzialmente un farmaco che la luciferasi consuma per produrre il segnale luminoso, consente di promuovere l’attivazione dell’opsina senza bisogno di inserire fibre ottiche”.
L’idea della luciferasi non è l’unica novità della strategia ‘made in Genova’: “Il sensore risolve il problema della tempistica e della localizzazione, determinando quando e in quali neuroni attivare il circuito per prevenire le crisi epilettiche in arrivo”, sottolineano i ricercatori. “Il nostro sistema – illustra Elisabetta Colombo, co-coordinatrice dello studio e ricercatrice del Center for Synaptic Neuroscience and Technology dell’Iit – è dotato di un sensore che percepisce l’acidificazione del neurone, caratteristica esclusiva dei neuroni epilettici, creando pertanto un circuito chiuso. Grazie alla somministrazione del farmaco che attiva la luciferasi, il nostro sensore controlla che il neurone sia sano o epilettico, e solo in quest’ultimo caso viene attivata l’opsina che riporta l’attività neuronale a livelli fisiologici”.
La sperimentazione di una terapia basata su questo approccio è ancora a livello preclinico, ma i risultati mostrano “una diminuzione superiore a 3 volte nel numero di crisi epilettiche e una riduzione del 32%”, praticamente di un terzo, “nella durata degli attacchi rispetto al gruppo non trattato”, riporta l’Iit.
“Il modello sviluppato – commenta Benfenati, direttore del Center for Synaptic Neuroscience and Technology dell’Iit – rappresenta un approccio potenzialmente promettente per il trattamento dell’epilessia cronica refrattaria ai farmaci, indipendentemente dalla causa specifica, genetica o non genetica, in particolare per i casi in cui l’intervento chirurgico non è possibile. Il prossimo passo consiste nell’ottimizzare la modalità di somministrazione del farmaco, in modo che il sistema possa restare attivo a lungo nel cervello e intervenire prontamente quando è necessario”.