(Adnkronos) – Gli antichi Greci dicevano parolacce, eccome. Anzi avevano un ‘ventaglio’ ampio ben 1.300 insulti nelle loro espressioni scurrili e forse hanno anche inventato loro il ‘dito m
edio’. “Oltre a molte parole colte – metro, atomo, terapia, democrazia – abbiamo ereditato da loro anche termini volgari, da cacca a culo. E arrivano dall’antica Grecia diversi modi di dire odierni come ‘fuori di testa’, ‘schiatta’, ‘culo rotto’ fino al gesto del dito medio”. Ad anticipare all’Adnkronos i risultati della sua ultima ricerca è lo studioso di linguistica specializzato nel turpiloquio, Vito Tartamella che sta per pubblicare i risultati della sua ultima ricerca. “Quando gli antichi greci dovevano insultare qualcuno non erano secondi a nessuno, quanto a fantasia e disprezzo: ‘locusta’, ‘montone’, ‘zotico’, ‘mangia merda’ e ‘vecchia mummia’ sono solo un assaggio del loro ventaglio di insulti, che – ho scoperto – contiene 1.300 espressioni: una stima per eccesso, ma rende l’idea del loro arsenale di espressioni triviali” afferma Tartamella che renderà a brevissimo pubblica la ricerca sul sito parolacce.org
Gli antichi greci, osserva Tartamella, “per mandare qualcuno a quel paese utilizzavano espressioni macabre, da ‘buttati nel baratro’ a ‘che il tuo cadavere sia mangiato dai corvi’. Senza contare gli insulti riservati alle classi basse, agli incolti, agli stranieri, alle prostitute e agli omosessuali passivi”. “L’Invenzione del dito medio e gesto insultante più noto al mondo, un segno fallico, è nato in area mediterranea nel 423 a.C., anno in cui Aristofane scrisse la commedia ‘Le nuvole’. O, quantomeno, questa è la testimonianza scritta più antica che abbiamo di questo gesto, che sicuramente era già molto diffuso ben prima di Aristofane” spiega Tartamella.
“Ricostruire le parolacce di una civiltà antica non è semplice. I documenti sono pochi. La storia ci ha tramandato soprattutto la letteratura ‘alta’: i copisti del passato hanno privilegiato trattati di filosofia, tragedie, poesie rispetto alle opere popolari” Ma da specializzato in turpiloquio lo studioso di linguistica Vito Tartamella non si è perso d’animo e, dopo una lunga ricerca, ha prodotto una dettagliata analisi che si appresta a pubblicare sul suo sito parolacce.org. “Tra le fonti di rilievo, ci sono le commedie attiche del V e IV secolo a.C., che facevano spesso uso di oscenità e umorismo crudo. In questo campo, il sovrano indiscusso indiscusso è il comico ateniese Aristofane (450-385 a.C.), il Checco Zalone dell’epoca: undici delle sue opere teatrali sono sopravvissute” riferisce Tartamella.
A queste, prosegue lo studioso Tartamella, “si aggiungono alcuni testi di lessicografi ed enciclopedisti”. Ma come orientarsi nel lessico scurrile? “Una risorsa formidabile – riferisce lo studioso di linguistica specializzato in parolacce – è il dizionario online del lessico scurrile greco che si può trovare sul sito translatum.gr, che mostra un arsenale notevole: è una raccolta di 1.300 lemmi, e già questo numero dà un’idea concreta di quanto fosse ricco il ventaglio di parolacce nell’antichità. Per fare un confronto, le volgarità nel dizionario italiano sono poco più di 300; salgono a oltre 3.000 solo includendo i termini arcaici o allusivi”.
Tartamella indica inoltre che “c’è poi un verbo, rhaphanidóo, che significa ‘ravanellizzare'” spiegando che all’epoca degli elleni “era la pena riservata gli adulteri, puniti infilando un ravanello nel sedere depilato con la cenere calda”. “Dai Greci, insomma, – argomenta ancora – abbiamo ricevuto non solo parte del nostro lessico, ma anche una prospettiva sul mondo, un modo di guardare la realtà, sia nelle vette del pensiero filosofico che nelle bassezze del turpiloquio”.
Anche se, avverte, “accanto a suggestive somiglianze ci sono anche rilevanti differenze, soprattutto nel modo di intendere il sesso: i Greci non erano così libertini come potrebbe apparire a prima vista. Eppure, il turpiloquio antico non è stato ancora esplorato a fondo, gli studi sono pochi e limitati ad alcuni aspetti, e molti dizionari censurano le espressioni oscene” rivela infine.
(di Andreana d’Aquino)