(Adnkronos) – “Nella mia Sicilia aprivo la finestra e vedevo il mare”. E’ uno dei rimpianti di Giovanni Crisafulli, catapultato dalla Sicilia a Milano per passione. “L’altro è quello di non veder crescere la mia nipotina Mariaelena” dice all’Adnkronos, mentre piano piano ci trascina nel suo mondo, quello della ricerca. “Il semplice lavoro di laboratorio a un certo punto non mi bastava più, volevo aiutare le persone ad avere una vita migliore” e non ci ha dovuto riflettere più di tanto quando gli si è presentata davanti l’occasione di entrare nel team dell’IFOM di Milano, l’Istituto di Oncologia Molecolare della Fondazione AIRC come manager Bioinformatico.
Nel centro internazionale lavorano ricercatori, provenienti da 24 Paesi del mondo, e le attività vengono condotte in modo interdisciplinare. Quest’anno, grazie anche a un eccezionale team multidisciplinare di colleghi, saranno pubblicati due studi, su Nature Genetics e Nature Medicine e, un terzo descritto sulle pagine di Cancer Discovery. Quest’ultimo Arethusa, di fase II, parla dell’immunoterapia “la nuova frontiera della cura del cancro”. “Purtroppo, non tutti i tumori metastatici del colon-retto possono essere trattati con questa terapia, solo quelli ricchi di mutazioni, ma rappresentano meno del 10%. Nell’ultima nostra ricerca abbiamo dimostrato che possiamo rendere anche il 90% dei tumori sensibili all’immunoterapia, aumentando il numero di mutazioni con un trattamento terapeutico. Siamo ancora all’inizio, ma le premesse sono buone”.
Classe 1979, Giovanni è partito dalla sua Sicilia, dopo la laurea con lode in Scienze Biologiche per continuare gli studi a Siena con un master in Bioinformatica e il dottorato in Logica Matematica. Da lì lo stage nella multinazionale svizzera Novartis, il lavoro nel laboratorio dell’istituto San Raffaele Giglio di Cefalù e quella che lui stesso definisce la sua “grande occasione”: entrare nella squadra di ricerca torinese del professor Alberto Bardelli, luminare a livello mondiale in ambito oncologico. Una tappa che lo ha portato ora all’IFOM di Milano, l’Istituto di Oncologia Molecolare della Fondazione AIRC.
“I momenti difficili sono sfide quotidiane. Accade, ad esempio, quando ti rendi conto che trovare delle risposte è complesso, che i dati non fanno luce sul problema. Ti assale la frustrazione, anche perché il tempo a disposizione di un paziente oncologico è poco. Per questo cerco di dare sempre il massimo. E’ allora che capitano anche quelli che sembrano dei veri e propri miracoli della scienza. Come la paziente a cui abbiamo allungato la vita di due anni ed è ancora tra noi, quindi, forse di più. L’emozione ti ripaga delle domeniche, le notti insonni e il precariato. Questo è il mio primo contratto a tempo indeterminato”.
“Mio padre era capotreno, mia madre insegnava educazione artistica – racconta -, che è la strada che ha preso anche mia sorella, quella dell’arte, mentre io ero appassionato di grafici sin da piccolo: volevo fare il meteorologo. Qualcosa, poi, è cambiato ma l’amore per la matematica mi è rimasto. Ora faccio il lavoro più bello del mondo. Mi pagano per pensare, per cercare di capire come allungare la vita a chi la sta per perdere. E’ questa la mia scommessa quotidiana”.
Un percorso professionale tutto nostrano, a differenza di molti suoi colleghi. “L’Italia è come una modella a cui piace vestire di stracci” dice Giovanni. “Abbiamo enormi potenzialità, menti eccelse e una qualità della vita superiore a tanti Paesi in cui sono stato, ma non ce ne rendiamo conto”. E, poi, aggiunge, “adoro la nostra socialità, che è anche un mio tratto caratteristico: dico sempre che riuscirei a parlare anche con i sassi”.
“Si dice che puoi ‘togliere un siciliano dalla Sicilia, ma non il contrario’ e questa è una frase che sento da sempre particolarmente mia. C’è una sensazione che chi è dell’isola prova quando sulla Salerno-Reggio Calabria vede il cartello che indica la sua terra e, affacciandosi al finestrino, riconosce l’incrocio dei due mari nello Stretto di Messina”. “Durante il viaggio sul traghetto, guardando la bellezza dello Stretto penso spesso alle parole del mio conterraneo Peppino Impastato che sosteneva come ‘bisognerebbe educare la gente alla bellezza perché in uomini e donne non s’insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore’”. “Così – conclude – spero che la mia educazione alla bellezza, alla curiosità e allo stupore restino sempre vivi e mi guidino nel mio lavoro”. (di Chiara Moretti)