Ci lasciamo alle spalle un anno difficile e quello appena cominciato rischia di rivelarsi ancora più complicato. A meno che, dopo aver toccato il fondo, il 2023 non si riveli l’anno del tanto agognato riscatto. Perché, se è vero che viviamo in una società sempre più dominata dall’individualismo e dall’egocentrismo (Hobbes lo aveva ampiamente previsto parlando di “Homo homini lupus”), i momenti di crisi sono quasi fisiologici e rappresentano da sempre il terreno fertile per riscoprire la nostra socialità (“Nessuno è un’isola, siamo invece tutti penisole”, ha scritto il poeta inglese John Donne) e ripartire di slancio.
Con la resilienza, l’anelito alla felicità e la voglia di stupire che, alla fine, prendono sempre il sopravvento sugli eventi più nefasti. L’assalto dei bolsonaristi al Parlamento brasiliano, che scimmiotta quello di due anni fa dei trumpiani a Capitol Hill, è la cartina di tornasole di un’epoca tormentata che arriva a mettere in discussione i fondamenti stessi della Democrazia, architrave imprescindibile delle “magnifiche sorti e progressive” che hanno caratterizzato gli ultimi 80 anni, almeno in Occidente. Del resto, il 2022 ci ha messo ampiamente alla prova. Fiaccati da una pandemia che non ha ancora detto l’ultima parola (dal 2020 il Covid ha ucciso in tutto il mondo oltre 6,6 milioni di persone e si temono nuove varianti, dopo che la Cina ha allentato le restrizioni e riaperto le frontiere), non ci siamo fatti mancare nulla: l’invasione russa dell’Ucraina, le tensioni tra Usa e Cina per Taiwan, l’occupazione arbitraria dei camionisti a Ottawa contro le restrizioni sanitarie, i diritti delle donne calpestati in Iran ed in Afghanistan, la carenza di manodopera, l’inflazione alle stelle, l’aumento vertiginoso dei tassi di interesse, i timori di una recessione imminente, i sistemi sanitari al collasso, i cambiamenti climatici sempre più frequenti e inquietanti. Un cocktail micidiale, una tempesta perfetta. Tutto troppo brutto per essere vero. Ci sarà un’inversione di tendenza? I segnali restano contrastanti, tendenzialmente più negativi che positivi.
Del resto, il 2022 si è chiuso nel modo peggiore: Pelè, leggenda del calcio mondiale, e Benedetto XVI, strenuo difensore della dottrina cristiana contro la dittatura del relativismo, sono passati a miglior vita. Eppure, qualche segnale benaugurante si intravede all’orizzonte. Almeno qui in Canada. Visti i tempi che corrono, ci aggrappiamo a tutto, pur di vedere il bicchiere mezzo pieno. Venerdì 6 gennaio, Festa dell’Epifania (dal greco “manifestazione”, “rivelazione improvvisa”, e magari la tempistica non è una coincidenza), il ‘Globe and Mail’ ha pubblicato una notizia “rivoluzionaria”: il “Collège royal des médecins et chirurgiens du Canada”, l’ente federale che regolamenta la formazione dei medici specialisti in Canada, ha annunciato di voler fornire maggiore flessibilità ai medici che si sono formati all’estero, accelerando i tempi per la certificazione dei loro titoli di studio in settori nevralgici, come la chirurgia, la cardiologia e la medicina d’urgenza. Alleluja! In un Paese afflitto dalla penuria quasi cronica di dottori, sia di base che specialisti, con 6 milioni di cittadini sprovvisti di medico di famiglia ed i ‘Pronto Soccorso’ che assomigliano sempre più ai gironi dell’inferno (“Lasciate ogni speranza voi ch’entrate”), questa storica apertura è destinata a cambiare la nostra vita. Ci saranno meno braccia prestate a mestieri di ripiego, ma vivremo qualche anno in più. Un ottimo viatico per sperare in un 2023 diverso, decisamente migliore.