Cinquanta, settant’anni nell’arco di una vita sono tanti, e tanto è bastato per trasformare la nostra Comunità. Da una componente a maggioranza di estrazione rurale dei primi arrivati, alla seconda e terza generazione, nate e cresciute in una metropoli; con conseguente mentalità opposta al pathos rurale che aveva formato e plasmato l’animo dei loro nonni e genitori prima della loro migrazione. Delle tradizioni e dei valori vissuti dai pionieri della nostra migrazione non restano, fra le nuove generazioni, che vaghi residui di abitudini familiari e manifestazioni colorate a sfondo folcloristico. Insomma, sono diventati cittadini metropolitani, seppur particolari rispetto al loro gruppo etnico. Non esagero di quanto lontani siamo dalla mentalità della tipica famiglia della nostra Comunità fino agli anni sessanta del secolo scorso.
La migrazione italiana, dal fine ‘800 sino alla prima metà del secolo scorso, era composta in maggioranza da giovani e padri di famiglia. Lontani dai loro cari, in genere consideravano la loro migrazione temporanea poiché, pensavano, sarebbero ritornati al villaggio dopo aver racimolato un discreto gruzzoletto, frutto dei propri risparmi, al fine di acquistare “quel campicello o quella casetta”. L’attaccamento agli affetti e alla terra natìa era radicato in tutti, anche tra chi era stato raggiunto dalla propria famiglia. A questo fine, una sola cosa premeva su tutto il resto: avere un lavoro stabile, senza badare di che tipo fosse; l’essenziale era il salario. Ogni incontro, ogni conversazione finiva col vertere sulle stesse frasi rituali: “Lavori? Come ti trovi?”. In quasi tutti i nuclei familiari era abituale portare la famosa “pietra al cantiere”. I giovani fortunati, quelli che frequentavano la scuola, una volta terminata la 5ª o 9ª elementare, appena quindicenni iniziavano a lavorare e, immancabilmente, nel fine settimana consegnavano l’assegno alla famiglia.
Il padre amministrava scrupolosamente il tutto ‘”per il progresso familiare”; altrimenti, soleva ripetere: “Se stiamo qui solo per mangiare ciò che guadagniamo che ci stiamo a fare? Se è per mangiare – ripeteva – potevamo benissimo restare in Italia! Vogliamo un futuro migliore per i nostri figli, e questo bisogna guadagnaselo. Non siamo mica canadesi, noi!”, alludendo ai locali che, non avendo le stesse preoccupazioni, di solito spendevano ciò che guadagnavano. In quanto alla madre, grande economa familiare, spesso, oltre al suo lavoro quotidiano nelle famose “fattorie”, aveva sulle sue spalle l’incombenza di un pensionante “bordante”, (migrante solo) da accudire, oltre alla sua famiglia. Le amicizie e le conoscenze avevano molta importanza, poiché completavano la parentela locale e sostituivano un po’ il clan familiare lontano. Era questa la compagine che animava le ricorrenze, le festività e celebrazioni; a questa compagine ci si rivolgeva in caso di difficoltà, lutto o disgrazia. Insomma, il legame di amicizia e stima era rispettato e coltivato religiosamente. Tutto questo incise su una mentalità che caratterizzerà le onde migratorie successive. Tanto che, fino a qualche decennio, se si domandava ad una persona matura quali erano i suoi progetti futuri, la risposta sarebbe stata: ritornare in Italia.
Con l’andar del tempo è stato giocoforza l’acquisto di una casa, visto come una riuscita e una meta. Man mano i matrimoni, le nascite e i decessi ci hanno integrato alla società di accoglienza, trasformando e radicando la nostra Comunità a una nuova realtà: la nostra. Per i nostri giovani quanto accennato può sembrare esagerato o addirittura patetico. A loro rispondo che: oggi, nel frastuono artificiale dei media, del consumismo e dell’edonismo più sfrenato, si è perso il senso dei valori e delle cose elementari, che però restano il substrato necessario che cementa ogni consorzio umano e sociale. Credo inoltre che, malgrado il nostro processo di integrazione, legami atavici, fili arcani ci congiungono ad un senso di appartenenza particolare, nutrito da ricordi ed esempi luminosi di grande umanità: il Retaggio di SACRIFICIO e di AMORE lasciato dai nostri genitori e nonni, che impellente sentiamo il dovere di trasmettere!
Ai giovani, alla seconda e terza generazione propongo parte della poesia di Amerigo Borsi, emigrante residente a Montreal dal 1951, dove è giunto a bordo della nave “Gorge”. (Tratto da: “IToscani di Montréal”, ed. dal Club Sociale Toscano di Montréal).