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Caso Farfalle. Il dietologo Mocini: “Nello sport il peso non è tutto”

(Adnkronos) – “Diversi aspetti mi stupiscono della vicenda” delle Farfalle della ginnastica ritmica e delle ex atlete che hanno denunciato di essere state oggetto di umiliazioni legate al peso e diete forzate, che hanno provocato in loro un forte disagio psicologico. “Per esempio mi colpisce il fatto che alcuni commentatori dicano che è normale che in certi contesti ci siano degli obiettivi di forma fisica e corporea ambiziosi. In realtà, il fatto che la performance agonistica sia così strettamente e intrinsecamente legata al chilo in più o al chilo in meno è tutto da dimostrare. Non è così automatico”. E’ l’analisi di Edoardo Mocini, medico dietologo e ricercatore di Università Sapienza e Policlinico Umberto I di Roma, che analizza per l’Adnkronos Salute gli episodi emersi dai racconti delle ginnaste, mentre nell’ambito delle indagini in corso continuano dopo le audizioni di atlete, tecnici e staff proseguono gli accertamenti. 

“Se si cerca di trasmettere rigore di stili di vita, indubbiamente più rigido in un contesto professionale – osserva l’esperto, molto seguito sui social e in particolare su Instagram dove conta oltre 120mila follower – faccio fatica a immaginare che leggere la frase ‘abbiamo un maialino in squadra’ sulla dieta consegnata a una di queste ragazze possa essere d’aiuto per aderire a un determinato schema alimentare. Se dovessero essere confermate le denunce fatte dalle ginnaste, quelle raccontate appaiono piuttosto pratiche di bullismo, vessazioni che, letteratura scientifica alla mano, non aiutano. Non solo, vogliamo anche parlare del fatto che il peso è un pessimo indicatore dello stato di nutrizione?”, incalza. “Se proprio dovessimo solo concentrarci sulla parte fisica e organica, cosa non possibile visto che anche il benessere delle atlete conta – precisa Mocini – bisognerebbe ragionare di composizione corporea. Fare la pesatura delle ragazze da una giornata all’altra è una cosa ridicola, perché il movimento dei fluidi all’interno del corpo fa sì che ci sia una variabilità anche di 3 kg tra un giorno e l’altro, senza che si sia ingrassati o dimagriti di un etto”.  

Quello di spronare duramente per raggiungere obiettivi di peso, prosegue Mocini, che ha pubblicato per Rizzoli il libro ‘Fatti i piatti tuoi’, è un discorso che, “allargando il discorso, riguarda un po’ anche i corpi grassi. Molte persone dicono: è vero, il bullismo va evitato, però forse è anche un modo per stimolare chi ha un problema a mangiare meglio. Noi però sappiamo che, al contrario, la stigmatizzazione e l’emarginazione rendono più difficile condurre stili di vita sani – avverte – Quindi anche volendo ipotizzare che l’intenzione degli allenatori fosse buona, in realtà quei gesti brutti non otterrebbero il risultato”. L’esperto tiene in particolare a lanciare un messaggio: “Nello sport il peso non è tutto”.  

E richiama il caso Simone Biles, per rimanere nell’ambito della ginnastica, nel suo caso quella artistica: “L’atleta americana si è ritirata dalle ultime Olimpiadi dichiarando di voler tutelare la propria salute mentale. Come dice l’Organizzazione mondiale della sanità, il benessere in realtà è uno stato fisico, psicologico e sociale. E io posso raggiungere il miglior voto possibile alla gara, avere la miglior forma corporea possibile, ma se poi ho sviluppato un disturbo alimentare il benessere non l’ho raggiunto”. Questi cortocircuiti si verificano non solo nello sport, ma anche nella vita di tutti i giorni, aggiunge il dietologo: “Spesso, anche in ambito scolastico, ai bambini viene chiesto di segnalare il proprio peso o anche di calcolare l’indice di massa corporea. Estrapolare questo singolo dato senza valutare tutto il contesto può essere fortemente fuorviante, perché la salute delle persone non si riduce al peso”. 

“Per quanto dal punto di vista statistico ci siano alcuni pesi che rispetto ad altri favoriscono il mantenimento della salute o la prestazione atletica, – continua Mocini – non possiamo isolare quel dato al fine di raggiungere una performance o anche di prevenire le malattie, dimenticando tutto ciò che c’è intorno. Sennò ci ritroviamo con una schiera di persone in forma perfetta, ma delle quali abbiamo dimenticato la salute psicologica e sociale”. Il caso Farfalle, se fosse confermato, per l’esperto sarebbe in realtà “l’espressione estremizzata di una problematica che nel nostro Paese c’è nel tema della relazione con l’alimentazione e con i corpi. I modelli estetici li subiamo tutti in termini di pressioni sociali. Il fenomeno è ancora più accentuato e violento in un contesto in cui le pretese in tema di forma corporea per i fini agonistici diventano ancora più esigenti. Ma queste forme di stigmatizzazione purtroppo avvengono anche altrove. In un contesto professionale, però, non ce lo si aspetta”. 

La dura legge del corpo unico 

Tutta colpa della ‘legge del corpo unico’. Cosa rende così difficile per alcune persone il rapporto con l’alimentazione e la propria immagine fisica? Troppo semplice puntare il dito contro i social, secondo Mocini. “Quello che fanno i social oggi – sottolinea – lo ha fatto anche la televisione in passato: modificano l’immaginario proposto. Se come specie umana un tempo i corpi che credevamo possibili erano quelli che ci circondavano nella quotidianità, oggi noi passiamo ore a vedere dei corpi che non sono corpi reali. Sono rappresentazioni mediatiche. E negli anni ’90 tutto questo era anche più esacerbato. Esisteva solo un corpo, e di un certo tipo”.  

Le modelle curvy salveranno il mondo? Per l’esperto non basta. “Semplicemente la rappresentazione deve diventare veramente inclusiva”, evidenzia. Lo spunto è un fenomeno che si sta verificando con una frequenza maggiore in tempi recenti, un inizio di timida svolta che potrebbe aiutare. Cioè il debutto di storie, documentari, film d’animazione che danno spazio anche ad ‘altri corpi’. Un esempio è ‘Reflect’, il corto della Disney che ha come protagonista una ballerina ‘plus-size’ e affronta il tema del dismorfismo corporeo, dell’autostima. Funziona, per l’esperto, più delle “quote curvy”.  

“Non so infatti se la creazione di specifiche etichette, di categorie da includere come una specie protetta, poi aiuti veramente – ragiona – Secondo me servirebbe semplicemente ampliare la rappresentazione e accettarne altre senza definirle in un modo specifico. Non serve ci sia la mascotte di una certa quota. La rappresentazione deve diventare veramente inclusiva, non solamente di donne bellissime con i fianchi un pochino più larghi e la vita strettissima. Ma magari di donne con forme diverse, e ancora donne con disabilità, donne non bianche, donne con vere differenze rispetto al modello estetico dominante”. 

No alla finta inclusività, dunque, invita. Allo specialista capita spesso di interagire sui social con ragazzi che esprimono un disagio. “Mi colpisce il completo cortocircuito del rapporto tra alimentazione, forma corporea, diete e modelli estetici – dice – Molte di queste persone percepiscono che c’è qualcosa che non va nel loro rapporto con il corpo, eppure continuano a mettere in atto le stesse identiche soluzioni che non li fanno stare meglio, ma peggio”.  

La società, analizza, “trasmettendoci un’idea del rapporto tra peso e alimentazione molto semplificato – purtroppo anche al fine di vendere prodotti – ci rende molto difficile uscire da certi tunnel, capire che il rapporto con il corpo, la dieta, l’alimentazione è qualcosa di più complesso rispetto a dire: mangio di meno, così dimagrisco. Purtroppo l’equazione è molto più lunga di: entrate meno uscite uguale il mio corpo”. Di positivo, riflette Mocini, c’è che oggi è cresciuta l’attenzione ai disturbi alimentari e vengono più diagnosticati. E sicuramente “la rappresentazione si è un pochino ampliata ed è un po’ più inclusiva anche se, ancora, quando si prova a mettere un corpo non proprio conforme in primo piano scattano le polemiche”.  

Ma in realtà, spiega l’esperto, “quando io ho la possibilità di vedere che altri corpi sono degni di esistere nelle storie che vengono raccontate, diventa molto più facile per me accettare di poterci convivere con quel corpo, e magari accettare che un percorso anche terapeutico, nel caso dell’obesità ad esempio, può necessitare anni. Se invece non c’è rappresentazione – avverte – è talmente insopportabile e difficile vivere in un corpo che ‘non esiste’ che l’importante diventa perdere quanto più peso possibile nel minor tempo possibile. Allora è molto più facile finire vittima di comportamenti e di prodotti non particolarmente utili”.  

I genitori e i campanelli d’allarme 

Come possono i genitori intercettare tempestivamente eventuali campanelli d’allarme? “Negli ultimi anni – risponde il dietologo – l’età dei disturbi alimentari si è molto abbassata. A rischio di sembrare banali, il benessere dei nostri figli è il primo campanello d’allarme, se partecipano con gioia oppure no alle attività della vita. L’altra spia è lo stato di nutrizione: se ci accorgiamo che nel giro dei mesi c’è stato un brusco movimento nel peso, può essere un segnale. Molto importante è mangiare con i nostri figli, conservare e tutelare il momento del pasto insieme. Bisogna in generale recuperare gli spazi per poter seguire uno stile di vita sano e corretto e prendersi cura di sé e dei propri familiari. Molti ci dicono che non hanno tempo per farlo bene”. 

Mocini rimarca un aspetto: “Credo che sia molto difficile comprendere la sofferenza che ci può essere dietro ai problemi legati all’alimentazione e all’immagine corporea – fa notare – Emerge anche da documentari come ‘Il metodo di Phil Stutz'”, su Netflix, “in cui l’attore Jonah Hill è sia protagonista che regista e mette a nudo le sue fragilità, spiegando anche quanto sia difficile crescere con un corpo grasso in questa società”.  

“Non se ne parla spesso – conclude lo specialista – ed è difficile esprimere il proprio disagio perché non viene minimamente accettato, perché la gente ti dice: vabbè dimagrisci. Mi è rimasto impresso ciò che mi ha detto una paziente affetta da obesità: si sentiva come se la società considerasse la sua difficoltà alimentare un difetto morale. Io credo che questo sia un punto da cui partire, cioè considerare che il rapporto con l’alimentazione è complesso, ha mille variabili, e a volte è patologico. E che questa patologia non è un vizio, non è una colpa, non è un difetto morale, ma è una patologia”. 

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