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Cantavano “Oh mia Patria, sì bella e perduta”, con il tricolore sui cuori infranti e le valigie di cartone!
Gli anni passano, ma la storia, la vera storia non si cancella. Intanto, nell’attesa di una smentita e un riconoscimento ufficiale, i simboli ricordano l’italianità della Venezia Giulia. Qui il magnifico gonfalone del Circolo Giuliano-Dalmata dell’Uruguay a Montevideo: al completo, simbolicamente, come una sola regione italiana, sono rappresentate, unite al Gonfalone di Trieste: Gorizia, Istria, Fiume e Dalmazia.

 

Il 10 febbraio l’Italia ricorda i suoi figli traditi, massacrati e infoibati dai partigiani e soldati comunisti del Maresciallo Tito, con il beneplacito dei comunisti italiani di Togliatti e della corrente pertiniana. Dalla fine del secondo conflitto mondiale, decenni di oblio si sono susseguiti, imposti dalla sinistra italiana. Nella “rossa primavera” del 1945 (le “radiose giornate” di Togliatti), mentre l’Italia celebrava l’agognata “Liberazione”, le strade dell’Istria e Dalmazia che portavano in Italia erano affollate da una lunga, dolorosa e triste colonna proveniente da Fiume, Istria e Dalmazia; una dolorosa Via Crucis verso rifugio e protezione. Erano i nostri fratelli e sorelle giuliani che, esuli e in preda al terrore, fuggivano la ferocia titina. La triste colonna di scampati deambulava; erano individui o grappoli di famiglie sopravvissute ad un odio cieco e fanatico per tutto ciò che era italiano. La primavera giuliana del 1945 si coprì di un cielo plumbeo. Non i colori dei mille fiori, ma le vermiglie tracce di sangue innocente che, macabre, risaltavano sull’immacolata pietra carsica ai bordi delle Foibe. Era il sangue delle vittime del boia Tito, il quale ebbe a definire l’eccidio: “pulizia etnica”. Ma quale fu la causa di tutto ciò? Bisogna risalire alla storia preunitaria della Venezia Giulia. Dopo il crollo della Serenissima, l’imperatore austro-ungarico, al fine di assicurarsi uno sbocco sull’Adriatico, inaugurò e favorì una massiccia migrazione di sudditi sloveni e croati, più fedeli all’aquila bicipide austriaca, per sostituire la popolazione veneta e latina (farà la stessa cosa in Trentino, favorendo una migrazione austriaca a scapito degli italofoni). Questo ancor prima dell’unificazione d’Italia; quindi, una persecuzione non contro una nazione, ma contro la popolazione veneta di quelle zone. La strategia austro-ungarica comportò la slavizzazione di nomi e toponomastica (come in Trentino, germanizzazione), la chiusura delle scuole italiane, dei circoli culturali e ricreativi, e il divieto di pubblicazioni in italiano. Fu instaurata una politica antiveneta e antilatina a favore degli sloveni e croati provenienti dall’interno balcanico. Tutto questo diede il via ad un antagonismo crescente verso la maggioranza italiana. Storicamente, sono questi i presupposti storici da considerare, a fine di districare la matassa di una tragica polemica di confine tra sloveni/croati e italiani della Venezia Giulia. È essenziale notare, inoltre, che prima del “calcolo  macchiavellico” austro-ungarico, i giuliano dalmati e fiumani, ripetiamo, più numerosi a Fiume, Istria e nelle città costiere della Dalmazia, in genere hanno sempre avuto rapporti pacifici con le minoranze slovene e croate del passato. Non è questa la sede per essere più esaurienti in merito. Risulta però che è proprio da questa sconsiderata e iniqua mossa contro l’elemento italiano che nacque la “mela del dissidio” di confine; fino a sfociare in un inasprimento nei rapporti, seguito da un odio mortale verso le genti fiumane e giuliano-dalmate. Dopo Francesco Giuseppe, Tito ripetè la stessa macabra strumentalizzazione, portandola però al parossismo di una “pulizia etnica”. Il boia Tito intendeva ripulire “fisicamente” quelle terre dall’elemento giuliano. Come? Strumentalizzando l’odio contro gli italiani. Con tutti i mezzi! È ciò che fece per costringerli ad abbandonare la terra dei loro avi: perseguitandoli, assassinandoli e terrorizzandoli. Ben più di ventimila furono le vittime infoibate, mentre gli esuli furono trecentomila e più!  Alcuni sostengono che l’odio sia stato innescato dall’amministrazione italiana tra le due guerre mondiali. Invece, sembra sia stato logico e giocoforza che la popolazione giuliana, una volta integrata alla Madrepatria, l’Italia, a seguito della libertà ritrovata, rivendicò la libertà bandita dall’Austria e il ripristino dell’originaria toponomastica e degli antichi cognomi veneti e friulani; come obiettivamente si potrebbe capire, fino ad un certo punto, il disappunto degli allofoni croati/sloveni. Però non è assolutamente concepibile il tipo di reazione sfociata poi, in una frenetica caccia all’uomo, animata da un odio e un fanatismo bestiale, criminalmente strumentalizzato dal boia Tito. Qualcuno ha scritto che se nel 1943 la Patria (l’Italia) fu pugnalata alle spalle, essa morì nel 1945 (altro che Liberazione). Con la disfatta militare nella Venezia Giulia, il vuoto venuto a crearsi dalla mancanza di autorità civiche italiane fu sostituito da partigiani e truppe comuniste del boia Tito, il quale, strumentalizzando il vecchio dissidio e i recenti rancori, scatenò una scia infernale di odio e terrore bestiale antiitaliano. Le orde titine, coadiuvate da criminali rossi italiani, si adoperarono con dovizia alla persecuzione di ogni individuo che si identificava come italiano. Per i titini e i comunisti di Togliatti, essere italiano di quelle zone equivaleva  ad essere fascisti e, come tali, meritavano le foibe.Ecco perché tra gli infoibati, oltre alle vittime civili innocenti, vi sono tante vittime partigiane antifasciste, colpevoli però di non essere filoslavi e comunisti…. Porzus insegna!      

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