Come sinteticamente ricordato, gli Arditi costituirono una punta di diamante dell’Esercito Italiano durante la Prima Guerra mondiale. Essi operarono là dove più critica e pericolosa fu la battaglia. Con l’intensificare del conflitto, ulteriori difficoltà, altre sfide, nuove trincee, nuovi differenti ostacoli da sorpassare e conquistare; urgevano nuove soluzioni tattiche e logistiche. La risposta a queste esigenze ancora una volta la diedero gli Arditi, per la loro capacità di risolvere sul campo di battaglia situazioni tatticamente impossibili per i reparti di linea. Essi travolsero munitissime trincee e capisaldi, ove invano cozzarono le nostre truppe con sanguinosi risultati. Purtroppo, in alcuni punti strategici del fronte, l’avversario si era tenacemente attestato, specialmente lungo il Piave, impedendo ogni guado delle acque turbinose dell’epico fiume.
Se dopo il Disastro di Caporetto le sponde del Sacro Fiume costituirono l’ultimo nostro estremo baluardo che impedì il dilagare degli austro-ungarici nella Pianura veneta e di tutto il settentrione, l’Esercito italiano, non poteva limitarsi a trincerarsi e resistere passivamente, mentre il resto del Veneto, il Trentino, il Friuli e la Venezia Giulia ancora subivano il tallone straniero; i Martiri della Causa unitaria e il “vento risorgimentale” ancora aleggiava nel cielo plumbeo, arrossato da frequenti bagliori di granate. Urgeva una mossa decisa; l’ultima, estrema riscossa di tutto un popolo, dalle Alpi alla Sicilia! Bisognava “… Tacere e andare avanti…”.
Era impellente oltrepassare il Fiume, rompere ogni resistenza. Al fine di snidarlo e neutralizzarlo, occorreva un tenace e violento contrattacco. Urgevano interventi fulminei e inaspettati. Ma il Piave in piena, con le sue acque torbide e insidiose, rendeva il compito arduo anche agli Arditi. È a questa fase della battaglia che si decise di costituire truppe adatte al particolare compito. Per la formazione di questa truppa altamente specializzata al guado delle acque torrenziali, si ricorse a volontari scelti fra gli stessi Arditi; dunque un’elite dell’elite del nostro esercito. Dapprima scelti sempre su base volontaria tra il personale di marina, proveniente dalle zone del Piave, esperti delle secche e delle correnti del Fiume, in seguito selezionati anche da personale proveniente da altre regioni d’Italia. Questi volontari erano sottoposti ad ulteriori e durissimi addestramenti fisici, finalizzati all’apprendimento delle particolari tecniche marziali di combattimento corpo a corpo nel particolare ambiente. Sorsero così i Caimani del Piave.
Chi diede loro questo nome fu “l’Orbo veggente” D’Annunzio. Tale nome deriva dalla particolare tattica di combattimento adottata dai volontari: attraversare il fiume con il favore delle tenebre, utilizzando una tecnica di nuoto ad imitazione di quello degli alligatori, ovvero affiorando dall’acqua solamente con la testa appena sopra le narici, quanto bastava per respirare. Il loro compito: effettuare ardite incursioni sulla sponda opposta per fiaccare continuamente il nemico e alla fine costituire solide teste di ponte, a protezione del resto dell’Esercito italiano nell’oltrepassare le acque. Al fine di permettere maggiore libertà di movimento erano vestiti spesso con soli calzoncini e ricoperti di una mistura di grasso e nero fumo per proteggersi dal freddo e mimetizzarsi nel buio. Indossavano una divisa completamente nera dalla testa ai piedi per favorire le azioni notturne oltre le linee nemiche. Cosi vestiti i Caimani attraversavano i corsi d’acqua con piccole zattere parzialmente sommerse, usate per il trasporto di bombe a mano e materiale bellico vario. Composti tra i migliori elementi del Reggimento “Fanti del mar” della Regia Marina (che in seguito prese il nome di “San Marco”), varcavano a nuoto il fiume e raggiunta la riva opposta esploravano i luoghi nella tenebra più completa, cercando di individuare le postazioni nemiche. Quando un obiettivo veniva individuato, si provvedeva a neutralizzare le sentinelle con le armi bianche per poi, con una azione rapidissima, assaltarlo e distruggerlo a colpi di bombe a mano.
Ben presto i “Caimani” con “pugnal fra i denti e le bombe a mano” divennero leggenda; il loro improvviso sorgere dal fango dei giuncheti con fulminee azioni di sorpresa creò scompiglio tra le fila nemiche. Il loro coraggio, sangue freddo, sprezzo del pericolo e i micidiali combattimenti corpo a corpo negli angusti spazi delle trincee, assieme allo spirito di corpo, fecero degli Arditi il corpo più temuto dagli eserciti avversari. Molti furono i motti degli “Arditi”, poi mantenuti e consolidati in epoche successive. Tra questi: “Eja, Eja, Allalà e “Me ne frego”, quest’ultimo gli Arditi lo scrivevano sulle bende impiegate per fasciare le ferite, come incitamento a proseguire. Oppure: “A noi!”, grido di raccolta del IX reparto d’assalto del Gen Messe. O ancora la famosissima “Giovinezza”, che dopo esser stata una canzone della goliardia universitaria, fu adottata dagli Arditi; nei due casi i testi erano differenti dall’ultima versione del Ventennio. Tra i simboli degli Arditi troviamo il teschio col pugnal tra i denti, come arridere e sfatare la paura della morte. Chiedo scusa ai lettori se questo mio excursus sugli Arditi costituisce una più che sintetica volgarizzazione. Il soggetto merita molto di più, se si considera che il medagliere degli Arditi consta di 20 medaglie d’oro, 1471 d’argento, 1488 di bronzo e 508 croci di guerra.
(Conclusione)