11 giugno, 2002: “Bell non è l’inventore del telefono”, decreta la “Camera dei rappresentanti” U.S. 113 anni dopo la morte di Antonio Meucci, padre delle comunicazioni moderne. La storia del grande scienziato italiano assomiglia ad un thriller fatto di inganni, spionaggi e furti.
Antonio Meucci nacque a Firenze nel 1808 e studiò all’Accademia delle belle arti dove si insegnava anche la chimica e l’ingegneria meccanica.
Nel 1825 preparò una miscela di esplosivi troppo potenti per i fuochi d’artificio presso un impresario, dove lavorava, per festeggiare il parto della Granduchessa Maria Carolina di Sassonia. Durante l’ultima serata dei festeggiamenti ci fu un incidente che provocò il ferimento di 8 persone. Denunciato assieme al collaboratore Luigi Fucini, riuscì a sfuggire alla condanna col beneficio del dubbio. Il 4 giugno dello stesso anno Luigi Fucini cadde in un fosso fratturandosi una gamba. Meucci aveva dimenticato di inchiodare la porta che dava accesso al fosso e fu condannato per negligenza a otto giorni di prigione.
Nel 1829 ebbe una relazione con la figlia del direttore del Teatro San Carlo, di cui si era invaghito un certo Gaetano del Nibbio, giovane arrogante, che cercò di provocare il Meucci facendogli abbandonare il posto del lavoro. Per questa sua negligenza fu incarcerato dal 2 maggio al 1° giugno 1829. Detenuto per altre due volte per reati minori, ne ebbe abbastanza e si arruolò nella Carboneria prendendo parte ai moti del 1831-1833.
Nel 1833 cominciò a lavorare al Teatro della Pergola come tecnico di scena e la sua genialità cominciò a manifestarsi proprio lì quando sviluppò un mezzo primitivo di comunicazione per parlare con i suoi colleghi. Qui conobbe Maria Matilde Ester Mochi, con cui si sposò il 7 agosto 1834 nella chiesa di Santa Maria Novella.
Nel 1830 si stabilì a Cuba e studiò l’uso di stimoli elettrici per guarire certe malattie. Qualche anno dopo, nel 1848, alcuni medici gli chiesero di verificare se gli studi di Mesmer, che applicava dei magneti e usava scariche elettriche sulle persone malate per guarirle, fossero attendibili. Nel corso di questa elettroterapia, Antonio scoprì la trasmissione della voce per via elettrica. Nacque il primo telefono, il “telettrofono”, che avrebbe rivoluzionato le vie di comunicazione del mondo intero.
La sua scoperta lo spinse ad emigrare negli Stati Uniti nel1850, a Staten Island, vicino a New York, dove continuò i suoi esperimenti fino a costruire il prototipo che avrebbe dovuto depositare per averne il brevetto.
Qui comincia l’intrigo e il furto da parte di Alexander Bell e della Western Union. Alla ricerca di una compagnia capace di mettere sul mercato la sua invenzione, Meucci inviò il prototipo e i disegni alla Western Union Telegraph e cercò di ottenere invano un appuntamento con i dirigenti. Decise allora di brevettare il suo telefono, ma la fragile situazione familiare non gli permise di trovare i 250$ necessari per il deposito. Per ovviare a questo inconveniente, nel 1871, depositò una domanda di “Brevetto imminente” al costo di 10 $ rinnovabile ogni anno. Dopo tre anni di stenti, con la moglie malata e costretta a restare a letto, non fu capace di rinnovarlo; inoltre la richiesta per riavere i disegni e il prototipo fu ignorata e nel “marzo 1876 Alexander Bell, che ha condotto gli esperimenti nello stesso laboratorio dove erano stati conservati materiali di Meucci, consegue un brevetto ed a lui è stato successivamente attribuita l’invenzione del telefono” (Dalla dichiarazione della Camera dei Deputati).
Meucci citò in giudizio Bell ed era sul punto di vincere la causa quando la sua morte arrestò il processo.
Nel 2002, Il giornale La Repubblica accolse con favore la notizia della decisione della Camera dei Deputati, che riconosceva il genio toscano inventore del telefono, una riconoscenza tardiva per Alexander Bell, “astuto scozzese” e “usurpatore” la cui perfidia ha fatto diventare Bell il gigante della comunicazione.