Alessandria – Lutto nel mondo della cultura italiana. All’età di 84 anni, venerdì 19 febbraio si è spento Umberto Eco (due anni fa gli era stato diagnosticato un tumore al pancreas). Scrittore, saggista di semiotica, estetica medievale, linguistica e filosofia, semiologo e docente universitario, Eco è stato l’intellettuale italiano più famoso all’estero degli ultimi 60 anni. Tra i suoi maggiori successi letterari ricordiamo “Il nome della rosa” edito nel 1980 e diventato ben presto un bestseller internazionale e premio Strega nel 1981. Altro successo “Il pendolo di Foucault” del 1988. L’ultimo suo libro è stato “Numero zero”, edito nel 2015. Durante la sua carriera si è dedicato agli studi di semiotica, di estetica, ed ha analizzato la cultura di massa. Il Premier Renzi: “Esempio straordinario di intellettuale europeo”. Da Le Monde al New York Times: tutto il mondo lo ha celebrato. A maggio uscirà, postumo, l’ultimo suo libro: “Pape Satan Aleppe”.
L’Opinione di Claudio Antonelli
Non voglio aprire polemiche né urtare suscettibilità. Desidero semplicemente farvi parte di un sospetto fortissimo anzi di una certezza: l’italianissimo Umberto Eco è stato un furbo di sette cotte che ha saputo sfruttare la fregola italiana di essere alla moda e di voler apparire ad ogni costo intelligenti. Ora il fatto di comprare un suo libro e leggicchiarne qualche pagina soddisfava in pieno queste due insopprimibili esigenze italiche.
Un mio fuggevole ma impetuoso incontro all’Istituto italiano di cultura di Montréal col mammasantissima degli intellettuali-progressisti italiani mi confermò questa verità.
All’Istituto italiano di cultura di Montréal, Eco presentò, anni fa, l’edizione in francese del suo best seller “Il nome della rosa”. Lo fece con verve e con umorismo, in un francese e in un inglese magnificamente parlati, e in un italiano addirittura pirotecnico. Non riuscì a fugare, però, l’impressione – come dire – di un’abilissima ciarlataneria. Tra l’altro si vantò di aver scritto prima la fine, poi l’inizio, poi la parte di mezzo del suo romanzo di successo aiutandosi con calcoli matematici e che so altro… Inoltre aveva inserito un collage di testi d’epoca nel corpus della sua operetta falsamente storica, dando al tutto un odore d’incenso esoterico; facendo insomma di tutt’erba un fascio. Ma su ciò egli sorvolò. Il gioco delle tre carte, per riuscire, deve sembrare autentico…
Venuto il momento delle domande e dei commenti, nessuno del pubblico osava aprir bocca. Il professor Bistolfi, direttore dell’Istituto italiano di cultura, mi aveva in precedenza strappato la promessa che, in caso di mutismo da parte dell’uditorio, sarei intervenuto io con una domanda. Allora, un po’ controvoglia e solo per mantenere fede alla promessa, intervenni. Con tono educato, e cercando di apparire il meno polemico possibile, esordii dicendo che l’enorme successo de “Il nome della rosa” metteva fuori gioco ogni dubbio circa l’alta qualità dell’opera. Aggiunsi, però, che Eco si era vantato con noi di aver scritto il libro cominciando dalla fine, continuando con l’inizio, e finendo con la parte centrale. Inoltre ci aveva detto che si era aiutato facendo strani calcoli a tavolino sulla struttura e lo sviluppo del romanzo, e che aveva saccheggiato a piene mani documenti e testi dell’epoca. Appariva evidente che aveva scritto quest’opera senza passione, a freddo. Io stesso, alla lettura, avevo ricavato l’impressione di un’abilissima, geniale contraffazione. La domanda che gli rivolgevo era la seguente. “Come spiegava, Eco, che gli Italiani, tanto passionali, istintivi e irruenti – così almeno ci vedono gli altri – riescono ad eccellere in opere d’alto funambolismo?” E dicendo ciò pensavo oltre che a Eco, all’evoluzione di un Fellini, passato dalla semplicità e dalla drammaticità de “La strada” a “Otto e mezzo” e ad altri film da illusionista.
Secondo me, lo straordinario benessere che aveva investito in così breve tempo gli Italiani, passati, grazie al boom economico, dalle ristrettezze al superfluo, aveva finito con il cambiare temi e stili. “Il nome della rosa”, a mio avviso, faceva inoltre leva sul gusto del marinismo e sul culto dell’“intelligenza”, così diffusi tra gli abitanti dello Stivale. In cuor mio avrei voluto che Eco desse una spiegazione circa il successo di questi giochi di prestigio, di questa letteratura pseudostorica e cabalistica, in una realtà italiana dove, dal cibo al gesticolare, ogni cosa sembra essere invece passionale e viscerale.
Devo ammettere che il mio intervento fu provocatorio, come del resto provocatore e dissacratore mi era sempre apparso Eco. Però la mia domanda era sinceramente diretta a ottenere una risposta, e non certo a contestare Eco.
Con faccia schifata e fuori dai gangheri, il pontefice massimo del “cagliostrismo” letterario italiano si agitò sulla sedia, anzi sul seggio, tornando continuamente sull’espressione “a freddo”, che pronunciava ora con sdegno ora con sarcasmo. Seguendo la mia logica – sostenne Eco – si sarebbe dovuto rimproverare anche a un Beethoven di aver composto i suoi capolavori musicali “a freddo”, dal momento che questo grandissimo musicista, essendo sordo, non poteva udire la musica che componeva. Citò anche il simbolismo della Divina Commedia, ammirato e apprezzato oggi e non criticato come io facevo col simbolismo de “Il nome della rosa”.
Disse tutto questo, devo ammetterlo, tra l’ilarità solidale del pubblico che, soggiogato, seguiva il geniale istrione come un orchestrale può seguire il direttore d’orchestra. Al che io replicai, a proposito di Dante, che il simbolismo e i richiami religiosi, in quell’epoca, facevano parte della vita di tutti. Ma pochi mi ascoltarono. Da questo punto di vista, io, quella sera, non trionfai proprio per nulla. Dopo di me, altri del pubblico intervennero con domande e commenti, ma ogni volta Umberto Eco, che appariva rimuginare, turbato, l’enorme affronto che avevo osato fargli, deviò dalle risposte per cercare di fare del sarcasmo contro di me e ridicolizzarmi. Voleva insomma mostrare urbi et orbi quanto assurdo, cretino e temerario fossi stato con quel bruciante giudizio: “a freddo”. Durante il rinfresco che seguì alla conferenza, nella confusione delle voci colsi per un attimo la voce di Eco, che, concitatamente, denunciava un’ennesima volta quella mia stupida e provocatoria accusa di scrivere “a freddo”.
Ad un certo momento io uscii all’aperto per prendere una boccata d’aria. Ero sorpreso ma anche un po’ turbato per l’iradiddio che avevo suscitato. Cosa mi avrebbe detto il dottor Bistolfi? Dopo qualche minuto mi accinsi a rientrare nell’Istituto. Fu allora che incrociai Sua Santità Umberto Eco, che stava uscendo affiancato dal prof. Bistolfi. Come seppi poi, quest’ultimo, di fronte alla decisione del prestigioso ospite di abbandonare anzitempo il ricevimento preparato dall’Istituto, si recava con lui a cena in un lussuoso ristorante di Montréal. Prima che il grande Umberto potesse riconoscermi, dalla sua carnosa bocca uscirono delle frasi rabbiose e concitate piene di “a freddo”. L’iroso monologo era rivolto dal collerico genio della semiotica al direttore dell’Istituto italiano di cultura di Montreal, suo anfitrione, che cercava di calmarlo, senza però riuscirvi.
Se riferisco questo episodio non è certo per vantarmi – qualcuno potrebbe dire: un po’ come una mosca cocchiera che ha avuto l’onore d’infastidire con una sua microscopica cacatina Sua Eminenza Umberto Eco – ma semplicemente per confermare che il politicamente “progressista”, geniale e funambolico Umberto Eco scrive a freddo e non a caldo. Ecco tutto.
One thought on “Addio a Umberto Eco,
l’autore de “Il nome della rosa””
Casualmente leggo adesso un suo commento del 2016 su un incontro ravvicinato avuto con quello che da quanto scrive appare come il mostro (di cinismo) e “furbo di sette cotte” (ma non erano tre?) Umberto Eco. Non so che cosa mi abbia spinto a postare anche un mio commento al suo, se non forse che Guido Bistolfi lo conoscevo bene (assieme alla deliziosa signora Margherita) perché, nelle mie ormai quasi cinquantennali periodiche peregrinazioni per il Nord America, occupandomi di cultura avevo naturalmente conosciuto anche il direttore dell’Istituto di Cultura della più importante città francofona canadese, sebbene, per formazione, facessi capo a Toronto e, successivamente, Ottawa. Non mi dilungherò. Mi limito appena a osservare che lei sembra appartenere alla scuola di Baldur von Schirach, capo della Hitler-Jugend, il quale disse che solo a sentire la parola “cultura” toglieva la sicura alla sua Browning (la citazione variamente attribuita a Goering o Goebbels di “mettere mano” alla pistola è sbagliata, ancorché concettualmente analoga).
Inoltre, credo di aver còlto un altro aspetto che la riguarda: lei non è minimamente affetto dalla “fregola” (???!!!) italiana di voler apparire ad ogni costo intelligenti. Stia pur tranquillo che quello è un rischio che non corre. Infine, una considerazione finale: che cazzo (dico “cazzo” per farmi capire bene anche da lei) significa scrivere “a caldo” e “a freddo”? È ovvio che se si scrive per pubblicare e non solo per imbrattare la carta (reale o virtuale, come sto facendo io in questo momento replicando a un “parafascistoide” come lei) si scrive sempre “a freddo”. Comunque lei, al freddo, dovrebbe essere abituato.
P.S. L’Ombra dell’ “iroso”, “collerico” e, aggiungo senza virgolettare, orribile progressista non aveva certo bisogno della mia difesa d’ufficio. Avevo solo un quarto d’ora da perdere.