Quel che noi celebriamo e designiamo col termine Pasqua costituisce la versione cristiana che si riallaccia alla tradizione giudaica del Passover, Pesach; da qui il termine Pasqua. “Dio d’amore che per Amor deve morire”. Cosa vuol significare questo titolo? Quale mistero si cela dietro questa frase “sibillina”? Anche se Pasqua è già passata, due sono le ragioni per cui mi dilungo sul soggetto; la prima è per accennare a quanto profondamente quest’evento vernale abbia inciso sulla coscienza dell’umanità. Al di là delle contingenze, il significato profondo della celebrazione trascende la storia e si riallaccia alle coscienze delle civiltà del passato, le quali hanno inciso sulle religioni e sulle civiltà successive. Popoli e civiltà di tutti i tempi hanno trasmesso simboli e allegorie, che velatamente rivelano la natura del “gran mistero. La seconda ragione di questa mia insistenza è che per afferrare, almeno superficialmente, il profondo significato di questa celebrazione, è essenziale ricorrere all’origine; trascendere il contingente. Riferirsi alle origini di tale festività significa estendere il “dramma umano” e terrestre a tutto il cosmo, rendendo immanente il principio della celebrazione. Simbolicamente, quattro sono i punti critici dell’anno siderale. I primi due governati dal principio di ascesi e discesa del sole (“Zenit e Nadir”). Questi, sommati, determinano l’anno. Gli altri due punti critici vengono determinati dall’ “incontro” che avviene a metà nel corso dell’ascesi e discesa del sole. Quest’ “incontro” cruciale determina gli equinozi (dal latino equi-nox), cioè: notti uguali, della stessa durata del giorno. A primavera l’equinozio vernale (hivernus) ed in autunno l’equinozio d’autunno o brumale (dal latino: brevina). Simbolicamente, l’incontro a metà dei due solstizi (principio assiale verticale, maschile e solare) determina l’Equinozio, “incontro” col principio orizzontale femminile, favorendo la vita che si manifesta nella natura in questo periodo. Questo meccanismo celeste, se considerato di per sé quale semplice effetto razionale risultante da equilibri astrofisici, appare come una fredda, semplice e logica costatazione. Ma, nel contesto umano, questi elementi cosmici sono simbolicamente all’origine delle festività pasquali e di altre celebrazioni.
E quando si tratta di celebrare, vibra la “corda umana”; si entra nei meandri della coscienza, ove i fenomeni cosmici, corrispondenti alle stagioni ed alle trasformazioni della natura, assumono valori simbolici e dimensioni spirituali vissute dall’umanità sin dalle società arcaiche. I simboli rappresentano dimensioni e valori impossibile da spiegare completamente; questi servono ad evocare. I simboli sono il riflesso di uno stato dell’Essere, hanno un loro profondo significato costituito da intuizioni, convinzioni e… TRADIZIONE. Ho usato le maiuscole appositamente, poiché per TRADIZIONE intendo non la ripetizione, la conservazione di usi costumi e credenze, ma un ininterrotto e misterioso filo arcano che il rito riallaccia ad un tempo ideale e spirituale dell’INIZIO di tutto, un “illo tempore’’ (M. Eliade, Aspect du Mythe, Gallimard, coll. Idée). Nel contesto, un rituale richiede essere sinceri e “veri”, poiché il rito è un atto-simbolo, un gesto archetipale che riallaccia all’ideale, trascendendo tempo e spazio, “reiterado”, cioè riattualizzando e riallacciando all’istante originario, appunto ad un “illo tempore”. Dante, nell’ultimo verso del Paradiso (Paradiso xxxiii,145) recita: “L’amor che move il sol e l’altre stelle’’. Ciò rivela, in maniera velata, la sintesi di un mistero, una Via per carpire il simbolo nascosto nel mistero della Pasqua, quale dramma ed epifania del divino. Nella sua opera, il Ghibellino accenna in maniera sibillina a delle “verità e principii tradizionali”. D’altronde, il Sommo poeta è lui stesso a prevenirci: “O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, mirate la dottrina che sasconde sotto ‘l velame de li versi strani” (Commedia, Inferno, ix, 61-63). E non basta. R. Guenon, nel suo pregiato “L’Esoterismo di Dante”, Atanor, ci dice che quando Dante parla dell’amore che governa il mondo e l’universo, di certo non si riferisce all’amore romantico e umano, ma a qualcosa di divino, di trascendente, a qualcosa che rappresenta la vita; ma non la vita quale risultato di una procreazione, bensì la vita quale l’opposto della morte, che vince la morte. Dante ci parla di un amore onnipotente che vince.
A questo punto il Guenon osserva che la parola AMOR racchiude il messaggio di negazione della morte. Infatti se si considera la A di Amor come ablativo (A-mor) abbiamo il significato di: “senza la morte”, cioè la vita che trionfa. D’altronde Virgilio ripete anche lui: “Omnia Vincit Amor” (Virgilio,Bucoliche,x,69), cioè: l’amore vince tutto! Ecco dunque il Dio d’amore, che per amore deve morire per trionfare sulla morte. Ecco la celebrazione del Dio che nega la morte, risorgendo in un trionfo di germogli e di fiori: la vita: Pasqua!