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La legge 40 sulla fecondazione assistita tornerà alla Consulta. Ecco perché

(Adnkronos) – La legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita tornerà alla Corte Costituzionale nel giro di alcuni mesi. E’ una legge importante, che ha dato la possibilità anche in Italia di accedere alla fecondazione assistita. Diversi sono stati gli interventi successivi della Consulta, primo fra tutti quello della sentenza del 2014 che ha abrogato il divieto di fecondazione eterologa. Un passo che ha limitato almeno in parte, per le coppie eterosessuali e compatibilmente con la disponibilità di donatori e donatrici, ‘i viaggi della speranza’ che hanno consentito prima di quella data a tanti italiani di avere figli, raggiungendo quei Paesi in Europa – la Spagna, l’Olanda, la Repubblica Ceca tra i più gettonati – in cui l’eterologa è realtà da decenni.  

C’è però un aspetto della legge 40 che merita attenzione. La questione riguarda in particolare la norma secondo la quale la donna, separata o divorziata, che in precedenza aveva intrapreso un percorso di PMA con l’allora compagno/marito, ha ad oggi il diritto di utilizzare eventuali embrioni soprannumerari residui per intraprendere un nuovo percorso di PMA dopo la separazione, anche senza o addirittura contro la volontà dell’ex partner. Recentemente è stato accolto dal Tribunale di Roma il ricorso che critica fermamente questa possibilità. 

La Corte Costituzionale sarà dunque chiamata a esprimere un giudizio riguardo la legittimità costituzionale di questa norma e quindi a poter consentire la piena revocabilità del consenso informato prestato in PMA in precedenza da parte del partner maschile, così come avviene per qualunque altro consenso sanitario informato. 

La Siams, Società italiana di Andrologia e Medicina della sessualità, in quanto promotrice della salute sessuale e psicologica della coppia, ma anche dell’individuo, così come del suo benessere generale, “auspica che si possa stabilire la piena revocabilità del consenso informato, supportando quindi la decisione del Tribunale di Roma”. Infatti, la prospettiva che anche dopo la fine della relazione di coppia, e conseguentemente di un progetto genitoriale comune, si possa procedere all’utilizzo degli embrioni residui per tentare una maternità ‘in solitaria’, eventualmente obbligando il padre ad assumere tutti gli obblighi genitoriali del caso, viene valutata come “estremamente preoccupante” dalla Società scientifica, in quanto “può essere possibile fonte di sofferenza per l’individuo, oltre che di dannose conseguenze giuridiche”. 

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