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Malattie rare, la voglia di scuola di Carola e Roberta e il diritto alla felicità

(Adnkronos) – Stavolta la campanella d’inizio del nuovo anno scolastico è suonata anche per Carola, 17 anni, di Fiumicino. Era da tempo lontana dai suoi compagni, dalla sua quotidianità di adolescente. A rubargliela, di crisi in crisi, la rarissima malattia di Lafora, un’alterazione genetica che fa sì che si accumulino zuccheri in particolare a livello cerebrale, in assenza delle proteine che dovrebbero sintetizzarli, coinvolte nel metabolismo del glicogeno. “Carola vuole guarire, sta lottando con tutta se stessa, aspetta la cura, va a scuola anche se per lei è frustrante”, racconta la mamma, Simona Fochetti. A Milano, mamma Maria e papà Fortunato dovranno comunicare a Roberta, 6 anni, che “mercoledì, di nuovo, non potrà andare a scuola, e lei si arrabbierà di brutto”, spiega con un sorriso un po’ amaro il papà. “Ogni venerdì ci arriva il programma settimanale e, quando non c’è l’infermiera, Roberta”, affetta da displasia campomelica acampomelica, una variante di una malattia già rara, “non può andare a frequentare le lezioni, con tutto quel che ne consegue”.  

C’è un filo sottile che unisce Carola e Roberta, da un punto all’altro dell’Italia: la voglia di vivere la propria età, di andare a scuola, di costruirsi un futuro. Le storie sono state raccolte dall’Adnkronos Salute. Del resto, sottolinea la mamma di Carola, “il diritto alla vita non è il diritto alla vecchiaia. E’ diritto ad un po’ di felicità”. Con questo pensiero, per la propria ragazza, i genitori di Carola hanno tentato di percorrere una via, un tentativo di terapia. A sbloccare questa possibilità è stato l’intervento della Regione Lazio ad aprile 2022. La 17enne sta ora ricevendo una terapia enzimatica sostitutiva in uso per un’altra patologia, la malattia di Pompe. Il farmaco si chiama Myozime*, di Sanofi.  

Lei, riferisce oggi la mamma, “prosegue le infusioni, ma ancora nessuno ha fatto controlli, sembra che le cose debbano andare così. Noi genitori di malati rari passiamo le nostre giornate a cercare di capire come migliorare, anche di poco, la qualità della vita dei nostri ragazzi, ma non abbiamo la possibilità di confrontarci con i medici se non quando la situazione clinica peggiora. Carola vuole guarire – ripete – va a scuola, è consapevole delle difficoltà che incontra, delle lezioni che non capisce, delle gite che non può fare, ma è una sofferenza che deve affrontare perché fa parte del suo percorso di crescita. La scuola ci sta aiutando molto, sono tutti molto presenti e lavorano per rendere il percorso di Carola a sua misura. La classe e gli insegnanti fanno esperienza di questa malattia, condividono il nostro percorso e ci allontanano dalla solitudine. Credo sia stato un bel traguardo raggiunto”, ammette Simona, che è convinta di una cosa: “Credo che la barriera più grande da superare ancora oggi sia la solitudine”.  

La solitudine dei malati rari. “Al di là della difficoltà della ricerca scientifica di trovare fondi – riflette Simona – le famiglie rimangono abbandonate nell’attesa. Sto imparando, però, che non posso aspettare una cura che salvi Carola, che nella disperazione in cui è caduto tutto il mio cuore devo avere la forza di darle giornate felici. Questo è oltre le mie forze. Ci serve qualcuno che ci aiuti a rendere questo possibile”.  

Quando pensa alla Lafora, Simona usa parole molto dure: “Questa malattia, come credo anche altre simili, posso paragonarla alla figura del ‘dissennatore’ di Harry Potter, all’angelo della morte, o qualcosa di simile. Si presenta alla tua porta e ti annuncia che è venuta a prendere tua figlia, non ora, non subito. Ne succhierà la vita giorno dopo giorno, poco alla volta, e lo farà davanti ai tuoi occhi. Inizialmente è terrore e disperazione, poi come accade ai carcerati con i propri carcerieri diventa l’unica cosa reale della tua vita. Ma io sono spettatore, e vorrei avere le parole per sostenere e spiegare a Carola tutto questo”. Spiegarle anche che ha un diritto alla felicità e starle accanto per vederlo realizzato, per quanto possibile.  

Sicuramente, interviene Fortunato Nicoletti, papà di Roberta, “siamo a un punto migliore per le malattie rare. Manca però ancora tutto l’approccio sociosanitario, sociale. Oggi viene considerata la malattia e questo preclude tutta una serie di esperienze di relazione, scuola, socialità che non vengono considerate come facenti parte della persona. La malattia rara non presuppone una cura specifica nel 90% dei casi, quindi bisogna agire sulla sintomatologia, ma poi c’è tutto il contesto. Per i ragazzi parliamo della scuola, dove non c’è presa in carico e cura sociosanitaria e sociale. Succede dappertutto”.  

“Fatta la Rete sulle malattie rare (anche se servono i decreti attuativi per una piena applicazione del Testo unico sulle malattie rare), la prima cosa che manca al momento è proprio questa”, incalza Nicoletti. “Anche vedendo la legge, spicca il fatto che è molto incentrata sulla ricerca, e va benissimo. Come va bene che si parli di comunicazione, di centri di riferimento, e così via. Ma manca una parte assistenziale. Lo stesso Pnrr”, Piano nazionale di ripresa e resilienza, “ha due missioni diverse per la parte sanitaria e sociale. Se non integriamo questi aspetti non andiamo da nessuna parte”.  

Roberta e Carola, con le loro storie, insegnano quanto sia importante la scuola. “Si parla sempre di lavoro e di vita indipendente – ragiona Nicoletti – Ma se non partiamo dal contesto scolastico, al lavoro non ci arriveremo mai. E’ importante lo screening neonatale” per partire subito con terapie e assistenza, ed “è importante la scuola per poi scegliere cosa fare della tua vita. Se manca tutto questo alla fine parliamo del nulla”.  

Nicoletti spera nella ‘massa critica’ che possono fare le famiglie con malati rari. Il papà di Roberta è vicepresidente dell’associazione Nessuno è Escluso Odv ed è parte dell’Alleanza malattie rare. “Non tutte le patologie sono uguali, ma poi alla base le storie sono quelle di presa in carico. C’è chi ha bisogno dell’infermiere, c’è chi ha bisogno di non sentirsi abbandonato. Queste malattie sono talmente rare che c’è il rischio che ci si autoisoli. Alla fine però i bisogni sono comuni e non dobbiamo sentirci soli. Anche noi famiglie dovremmo cominciare a ragionare in maniera diversa, non personale”, ma in una logica di squadra. “E’ vero – conclude – anche le terapie hanno tempi lunghissimi” per queste malattie, “ed è giusto e cruciale che la ricerca vada avanti. Ma le famiglie” nella vita di tutti i giorni “non devono sentirsi isolate”. 

Remuzzi: “Le novita’ del Testo unico non restino sulla carta” 

“Per il problema delle malattie rare in Italia si va progressivamente raggiungendo un buon livello di organizzazione e consapevolezza. Qualcosa di organico, in altre parole”. Il Testo unico “introduce importanti novità”. Cosa non va ancora? “Intanto che, se sulla carta sembra che ci sia tutto quello che serve, sull’attuazione dei vari provvedimenti legislativi annunciati siamo ancora indietro. Molti dei punti previsti non sono ancora stati implementati, per altri attendiamo una definizione con decreti attuativi già da diversi anni”. A tirare le somme, alla vigilia del Rare Disease Day, è Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri Irccs, a cui fa capo il Centro Aldo e Cele Daccò, che è la sede del Coordinamento della Rete regionale lombarda per le malattie rare.  

“In teoria – spiega l’esperto all’Adnkronos Salute – una novità molto bella e importante è la previsione del credito d’imposta, pari al 65% delle spese sostenute per l’avvio e la realizzazione di progetti di ricerca” sulle malattie rare, “fino a un massimo di 200mila euro per ciascun beneficiario”. E “sempre in teoria”, è prevista “l’estensione degli interventi di sostegno previsti da un decreto del Miur del 2016 alle imprese che intendono svolgere studi finalizzati alla scoperta, registrazione e produzione di farmaci orfani o altri trattamenti innovativi”. Questo, però, fa notare Remuzzi, “non è ancora stato attuato”.  

“Abbiamo – prosegue – un’organizzazione che sta diventando molto capillare, coinvolge tutte le Regioni, coinvolge l’Istituto superiore di sanità (Iss), però ci sono ancora dei problemi. Per esempio, sono 20 anni che parliamo di un registro nazionale presso l’Iss, ma oggi un vero registro non c’è ancora. Sono molto più completi certi registri regionali come quelli di Lombardia, Veneto, Toscana, Emilia Romagna. E’ un peccato perché presso l’Istituto dovrebbe esserci un registro che riassume in un modo puntuale la situazione di tutte le regioni d’Italia e l’Istituto dovrebbe poter conoscere in qualunque momento quali, quanti e dove sono i malati di malattie rare in Italia, intervenire dove ci sono difficoltà, vedere dove è importante avviare progetti di ricerca e di assistenza e attraverso il registro poter governare il sistema”. Un altro elemento citato da Remuzzi è l’informazione per i pazienti con malattie rare: è prevista sulla carta l’adozione di strumenti adeguati, e anche qui “non c’è stata ancora piena attuazione”. E “poi – evidenzia – ci sono delle cose che hanno a che fare in generale con i mali del nostro servizio sanitario nazionale, che sta diventando sempre più un servizio sanitario nazionale per chi se lo può permettere”.  

Questo, ammonisce il direttore del ‘Mario Negri’, “non è coerente con i principi della Costituzione, che prevede che chiunque abbia la possibilità di essere curato, in particolare gli indigenti. Non è così quasi mai: il Servizio sanitario nazionale, che è sulla carta una cosa straordinaria, ha delle grandi differenze regionali nella sua implementazione. Inoltre, c’è una prevalenza del privato che ormai si sta diffondendo dappertutto e che è molto preoccupante. Pensate soltanto ai medici a gettone, assunti da cooperative private per far fronte alle carenze della medicina d’urgenza, ma anche di altri settori. Medici di cui non conosciamo le competenze e che guadagnano in pochi turni di guardia quello che guadagna un medico assunto regolarmente da un ospedale in un mese. A questo dilagare del privato speriamo di poter mettere rimedio, perché sennò succederà da noi quello che è già successo negli Stati Uniti, proprio mentre Oltreoceano stanno invece cercando di tornare indietro”.  

Ora, ragiona lo scienziato italiano, “io mi illudevo che le malattie rare, con tutta questa legislazione, con i network europei, con tutta questa attenzione, fossero al di fuori da questo fenomeno”. “Personalmente – riflette Remuzzi – penso che il fatto che un malato debba pagare per essere curato, dopo aver contribuito comunque attraverso la tassa sulla salute, sia molto triste. Finora siamo stati fortunati a non dover vivere con la preoccupazione dei soldi quando siamo malati, cosa che succede nella maggior parte dei Paesi del mondo. Però – fa notare – sempre più spesso perfino negli ospedali pubblici, dove le attese per un esame sono sempre molto lunghe, la stessa prestazione da parte degli stessi medici la si può fare nel giro di pochi giorni se uno paga. Che questo succeda spesso anche per le malattie rare è intollerabile, a mio avviso. Il mercato in sanità non funziona. Il pubblico deve tendere a ridurlo, il fatturato, attraverso la prevenzione: l’esatto contrario di libera scelta e mercato”. 

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