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  • Canada multietnico e… “intollerante”

    Canada multietnico e… “intollerante”

    Il Punto di Vittorio Giordano

    Dopo la strage di Québec city, il Re è più che mai nudo. Nemmeno il Canada, Paese pacifico, accogliente e multietnico per antonomasia, è vaccinato contro la violenza ed è immune dal terrorismo. Qualche avvisaglia, a dire il vero, si era già avuta qualche anno fa: era il 22 ottobre del 2014 quando Michael Zehaf-Bibeau, un canadese convertito all’Islam, aveva fatto irruzione in Parlamento a Ottawa stroncando la vita di un soldato; due giorni prima, a Saint Jean sur Richelieu, Martin Couture-Rouleau, anche lui convertitosi all’Islam jihadista, si era lanciato con l’auto contro due militari, uccidendone uno. La memoria, purtroppo, è selettiva: tendiamo a ricordare solo ciò che ci piace, ci serve o ci conviene. Ma è un inganno cognitivo, sebbene inconscio. La verità è che non possiamo prescindere dal passato che, da che mondo e mondo, è ‘magistra vitae’ ed è imprescindibile per costruire il futuro. E il futuro del Canada, come quello di qualsiasi Paese occidentale, deve fare i conti con la ‘Spada di Damocle’ del terrorismo globale. Putroppo è così: nonostante l’oceano, nonostante lo spirito hippy da ‘volemose bene’, nonostante solo 150 anni di storia unitaria, nonostante il progressismo solidale di Trudeau, nonostante il ‘multiculturalismo dorato’, anche il Paese degli Aceri è un bersaglio. Lo avevamo intuito, adesso ne abbiamo la certezza. Il risveglio è traumatico: il Canada si rivela più che mai fragile ed esposto. Una verità dolorosa che il Paese scopre – e qui sta la beffa, dopo il danno – sotto il governo liberale presieduto da Justin Trudeau, il politico anti-Trump per eccellenza, il leader progressista più popolare del momento sulla scena mondiale. Che proprio qualche giorno fa si è ulteriormente smarcato dal tycoon americano anti-immigrati, annunciando ‘urbi et orbi’: “A tutti coloro che stanno scappando da persecuzioni, terrore e guerra: i canadesi vi accoglieranno, a prescindere dalla vostra fede religiosa. La diversità è la nostra forza”. Sottintendendo che il multiculturalismo canadese è più attraente del melting pot americano. E che, se ieri il sogno era americano, oggi è canadese. Ne siamo proprio certi? In base ai dati resi pubblici recentemente dalla Polizia di Montréal, i crimini di odio sono cresciuti del 20% nell’ultimo anno: addirittura 52 le segnalazioni ricevute dal giorno del massacro alla moschea; mentre un sondaggio della Cbc-Angus Reid Institute rileva come il 68% dei canadesi auspichi che gli immigrati si impegnino maggiormente per integrarsi nella società che li ospita. Forse questo “fondamentalismo multiculturale” qualche falla ce l’ha. Uno Stato, per quanto giovane e aperto, non può prescindere da una spina dorsale, da un’appartenenza che affondi le sue radici in un’identità definita e sedimentata nel tempo. Per quanto secolarizzata, la società canadese è intrisa di valori cristiani: basti pensare alla storia, al patrimonio artistico e alla toponomastica. Perché negarlo? D’altro canto, l’altra faccia della medaglia del “populismo nazionalistico” – quel Canada senza un’identità definita e definitiva, che Trudeau stesso ha dipinto come “il primo Stato post-nazionale del mondo” – non ci mette affatto al riparo dai mali del nostro tempo. Per quanto “cool” e “friendly”, anche il Canada ha fallito. Così come il resto dell’Occidente. Il Canada delle “magnifiche sorti e progressiste” non è riuscita a prevenire il gesto violento di un altro suo ‘figlio’, un altro ‘lupo solitario’, un’altra vittima della società occidentale che si è lasciata ammaliare da quelle ideologie estremiste che sfruttano sempre di più le tecnologie digitali capaci di trascendere ogni confine, lingua o valore. Siamo tutti potenziali vittime e carnefici. È una guerra senza precedenti dove non c’è confine nazionale che tenga. E dove nessuna nazione può sentirsi inattaccabile, solo perché tollerante e multiculturale. A maggior ragione se sprovvista della consapevolezza di un’identità compiuta e definita, se orfana di valori imprescindibili che fanno di un insieme di Individui, che abitano lo stesso territorio, una Nazione compiuta e matura.

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  • In Europa e Canada il buonismo, alla Casa Bianca il pragmatismo

    In Europa e Canada il buonismo, alla Casa Bianca il pragmatismo

    Il Punto di Agostino Giordano

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    I mille giorni di governo-Renzi hanno lasciato solo macerie politiche ed economiche. Tutto proteso a instaurare un suo regno ‘in salsa etruria’, Matteo ha sadicamente sorvolato sulle urgenze degli italiani per concentrarsi su riforma costituzionale e Italicum, poi bocciati dal Popolo e dalla Consulta. Tre anni persi per l’Italia. E pensare che, per realizzare la sua Chimera, ha spaccato il Pd, ha sfasciato mezza FI, ha ridicolizzato il Parlamento, ha speso miliardi in regalìe e poltrone. Gli stessi miliardi di cui adesso l’Ue puntualmente chiede conto al governo. Il buon Gentiloni ‘piagnucola’ su migranti-terremoti-nevicate-alluvioni, e Bruxelles gli ricorda che gli italici ‘eventi’ sono diventate piaghe ‘strutturali’. Ma parlavamo di Consulta, che, per la Camera, ha partorito il Consultellum. Che recita: la Camera vota a turno unico, con i capilista bloccati; con  le pluricandidature, ma ancorate al sorteggio; con la doppia preferenza di genere e con la soglia di accesso al 3%; con la possibilità di assegnare  un premio di maggioranza (340 seggi, su 630 complessivi) al partito che eventualmente dovesse superare il 40% dei voti validi. Una legge formalmente maggioritaria, ma sostanzialmente proporzionale.  Al Senato, invece, – che il buontempone Renzi voleva cambiare in ‘Dopolavoro regionale’ – è in vigore un sistema proporzionale: voto con la preferenza unica non di genere, e con soglie diverse: 8% per i partiti che corrono da soli; 3% per quelli coalizzati e che, uniti, superano il 20%. Queste asimmetrie dovranno essere corrette dal Parlamento – insiste il presidente Mattarella – per rendere omogenei i due sistemi elettorali e poi si potrà pensare al voto. Dal 25 gennaio – giorno del responso della Sibilla Consulta – i partiti si riposizionano sul tipo di sistema elettorale preferito e sul piano delle alleanze. Nel Pd, dove Renzi è tornato deciso a imporre al partito e al Parlamento un tipo di ‘Mattarellum alle vongole’, regna il tutti contro tutti, con la sinistra interna che vuole il Congresso o è pronta alla scissione; con un centrodestra che si unisce sui programmi, ma è diviso sulle primarie; e con un Berlusconi, tornato a fare politica e immediatamente azzoppato da un’altra inchiesta meneghina. Si chiama PPP (Persecuzione Politica Pervertita), un virus peggiore della meningite, che ha sconvolto il normale corso della storia politica italiana. Oggi, quindi, in Italia il dibattito verte sul possibile sistema elettorale ‘omogeneo’ valido per ambedue le Camere, con un occhio rivolto alle ‘motivazioni’ della sentenza dell’Alta Corte, che si attendono per la fine di febbraio. Lasciamo l’Italia alle prese con i suoi tempi borbonici e col governo Gentiloni che cerca disperatamente, nelle tasche degli Italiani 3 miliardi e mezzo di euro, per ripianare  i conti con l’Ue, e brindiamo all’elezione di Antonio Tajani, co-fondatore di Forza Italia, a Presidente del Parlamento Europeo. Sperando che, a Bruxelles, non si faccia trascinare dal buonismo filo-islamico, dall’odio anti-Putin e dal tifo anti-Trump. Eppure Putin è stato il primo leader ‘cristiano’ a prendere posizione concreta contro l’Isis! E Trump, da poco alla Casa Bianca, ha dichiarato che, da cristiano, sarà al fianco di Putin, nella lotta al terrorismo jiladista. Un parlare e un fare deciso. Che ha fatto gridare allo scandalo tutto il globo. A iniziare da quel grattacielo newyorkese che ospita l’Onu: il massimo dell’insipienza universale fatta Istituzione. Bene, Ue, Onu e Canada, insieme a un giudice federale Usa, 16 procuratori generali di Stati Americani e masse di scioperanti, gridano contro l’incostituzionalità dei Decreti di Trump. Ma come? Trump vuole ultimare un muro, iniziato da Clinton, e protestano; vuole creare lavoro per gli americani disoccupati, e protestano; vuole favorire l’entrata di migranti cristiani e frenare quella degli islamici, e protestano; fa schizzare a record impensabili la Borsa americana, e protestano. A Roma governa Papa Francesco, buonista a prescindere; ma a Washington regna Trump, cristiano e pragmatico. Rassegnatevi. Da buoni cristiani.

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  • Un Canada meno americano e più europeo

    Un Canada meno americano e più europeo

    Il Punto di Vittorio Giordano

    Libero scambio con l’UE

    Ha sempre fatto le veci del fratello minore, succube della ‘prepotenza’ economico-commerciale del suo unico e ingombrante vicino: gli Stati Uniti d’America. Tanto che ancora oggi in molti, troppi, dicono ‘America’ per intendere Stati Uniti. Una parte per il tutto: una particolare metafora che si chiama sinèddoche. Un ‘predominio’ sfociato in un pregiudizio culturale e, di riflesso, linguistico. Peccato, però, che geograficamente il Nord America contempli anche Messico e Canada. Il Paese degli aceri, in particolare, si è ormai convinto di mettere da parte le ‘stampelle a stelle e strisce’ per camminare sulle proprie gambe. Guardando meno verso sud e più verso est. Oltre oceano. Un orientamento rivoluzionario e antistorico (ma che rende giustizia alle radici più europee di un Canada culla della Nouvelle-France) che si è concretizzato domenica scorsa con la firma del trattato di libero scambio a Bruxelles. L’ultimo atto di un percorso di progressivo affrancamento dal ‘fratello maggiore’ americano. Un percorso periglioso e ‘irto d’insidie’ iniziato sette anni fa, il 6 maggio del 2009, quando il premier conservatore Stephen Harper, sostenuto dal Primo Ministro quebecchese dell’epoca, Jean Charest, ebbe la lungimiranza di aprire i negoziati con la controparte europea. Fino alla firma apposta da Justin Trudeau, che avrà anche accelerato il buon esito delle trattatative, ma ha solo completato l’opera del suo predecessore.

    Al netto dei personalismi, è evidente come il Canada, insolitamente vispo e sfacciato, appaia sempre più come un’ “anomalia” sulla scena internazionale: in un’epoca sempre più votata alla chiusura dei confini (la Brexit) e alla ‘fobia’ del diverso/immigrato (il muro col Messico, di Trump), il Canada apre le sue porte e sigla accordi inediti per liberalizzare i mercati. Delle merci, dei servizi, ma anche delle professioni. E lo fa con giudizio, diversificando la sua bilancia commerciale (ci sono negoziazioni in atto anche con Cina e India), fino ad oggi troppo sbilanciata verso gli Stati Uniti, che monopolizzano il 75% delle esportazioni canadesi, contro il 9.5% destinato all’Europa. Numeri che, francamente, fanno del Canada uno stato-satellite degli Usa. Uno scenario non più tollerabile perché, come direbbe Trudeau: “Siamo nel 2016”. Fino alla svolta di domenica scorsa, con un trattato storico che abroga il 99% di dazi doganali tra le due sponde dell’Atlantico e che permette alle imprese europee di partecipare alle gare per gli appalti pubblici in Canada (e viceversa), oltre a prevedere il reciproco riconoscimento di titoli professionali e nuove regole per proteggere il diritto d’autore e i brevetti industriali. Ad oggi, l’Ue rappresenta quasi il 10% del commercio estero canadese, mentre il Canada costituisce il 12º partner commerciale più importante dell’Ue (l’1,6% delle importazioni e il 2% delle esportazioni). I margini di miglioramento sono enormi e, potenzialmente, clamorosi per il futuro economico di entrambe le sponde dell’Atlantico. I più entusiasti prefigurano un aumento degli scambi pari al 20%. Una valutazione d’impatto del CETA, condotta dai vertici europei prima dell’approvazione del trattato, stimava un aumento delle entrate di circa 11,6 miliardi di euro per l’UE e 8,2 miliardi di euro per il Canada nei sette anni successivi all’attuazione dell’accordo. Oltre ad un sostanziale contributo della liberalizzazione degli scambi di servizi e all’aumento del PIL (50% degli aumenti totali per l’UE e 45,5% degli aumenti per il Canada). Previsioni da “magnifiche sorti e progressive”. Vietato cantare vittoria, però: manca ancora
    l’ “ultimo miglio”, quello decisivo, e che può (ancora) mandare tutto all’aria: fermo restando il voto del Parlamento Ue e della Camera dei Comuni canadese (entrambi scontati), si devono attendere i voti dei singoli Parlamenti nazionali. Con le ‘mine vaganti’ Austria e Germania. Per il momento, cioè, il trattato entra in vigore in maniera transitoria e parziale. E speriamo che diventi presto permanente. Almeno dal punto di vista delle aziende italiane, soprattutto quelle del settore vitivinicolo e lattiero-caseario, che saranno messe nelle condizioni di aumentare le esportazioni verso il Canada, un mercato in cui il ‘Made in Italy’ viene molto apprezzato, tanto che Ottawa ha riconosciuto le Indicazioni Geografiche Tipiche. La stessa Ottawa, però, è chiamata ad affrontare il fronte-interno: quello delle aziende casearie quebecchesi che chiedono di essere indennizzate per le perdite di 150 milioni all’anno legate all’arrivo di 18 mila tonnellate in più di formaggi europei. Questa volta, però, spetterà a Trudeau, che aveva accusato l’Europa di immobilismo sull’ostacolo Vallonia, trovare il ‘bandolo della matassa’.

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  • È ancora luna di miele, ma ora viene il difficile

    È ancora luna di miele, ma ora viene il difficile

    Il Punto di Vittorio Giordano

    Un anno di governo Trudeau

    Tutto secondo copione: ad un anno dalla sua elezione a Ottawa (era il 19 ottobre 2015), il governo presieduto da Justin Trudeau viaggia col vento in poppa. Addirittura il 65% dei canadesi lo sostiene a spada tratta. Continua la luna di miele con i cittadini-elettori. Impossibile negarlo: Justin ha restituito il sorriso e la speranza ad un Paese incupito da 9 anni di politica conservatrice, troppo sbilanciata sul controllo spasmodico dei conti. Eppure, la maggior parte dei provvedimenti, quelli più importanti, strategici e spinosi, sono stati annunciati ma non ancora approvati. Oppure rimandati. La gente gli crede sulla parola. Questo perché Justin gode di un credito enorme, che affonda le sue radici nella ‘belle epoque’ del padre Pierre Elliott, nel suo sguardo magnetico, nel suo sorriso  rassicurante, nella sua visione di un Canada verde, moderno, aperto e accogliente. In altri termini, in questi primi 12 mesi, la forma ha prevalso sulla sostanza. L’immagine di un Canada diverso, moderno, ‘cool&friendly’ e di nuovo protagonista sulla scena internazionale, per adesso basta e avanza. L’immagine, appunto. Quella di un leader vicino alla gente, che ama i bagni di folla (inclusi i selfies). Un “populista gentile” lo ha definito l’ex Premier italiano, Enrico Letta, contrapponendolo a Donald Trump. Intendiamoci: il governo canadese ha già tradotto molte promesse elettorali in provvedimenti legislativi (87 su 353 secondo ‘Polimètre Trudeau’; 95 su 219 secondo ‘Trudeaumetre’, due siti che misurano il “grado di fattualità” dell’esecutivo): ha accolto 31 mila rifugiati siriani, ratificato l’accordo di Parigi sul clima, messo a disposizione 600 soldati per le operazioni umanitarie sotto l’egida dell’ONU. E poi, sul fronte interno: sgravi fiscali per la classe media, detrazioni per i figli a carico, massicci investimenti per le infastrutture (a scapito di un deficit che già supera i 30 miliardi), stop al pedaggio sul ponte Champlain, dialogo con le popolazioni autoctone con tanto di inchiesta sulla violenza contro le donne, difesa dei diritti individuali (soprattutto per gay e trasngender), la legalizzazione del suicidio assistito (su ‘input’ della Corte Suprema). Secondo i più maligni, però, sarebbero tutte scelte che, seppur nette e degne di nota, riguardano temi non decisivi.

    Il difficile viene adesso: nei prossimi mesi Trudeau sarà chiamato ad esporsi su questioni ben più spinose e dibattute. Con risvolti anche economici (e si sa quanto conti l’economia in Nord America!). Come i trasferimenti alle Province in materia sanitaria: l’incremento sarà del 3, e non del 6%, con una perdita di 1 miliardo all’anno per i governi locali, già sul piede di guerra. E ancora: la costruzione, o meno, del controverso oleodotto Keystone XL in Alberta, su cui Trudeau continua a mostrarsi possibilista, nonostante le perplessità degli ambientalisti; la consegna della Posta a domicilio, che ha visto l’esecutivo esporsi sul suo mantenimento, salvo poi prendersi una ‘pausa di riflessione’; la nuova legge sulla cittadinanza, ferma in Parlamento dopo l’annuncio ‘urbi et orbi’ dello scorso febbraio; la legalizzazione della marijuana, che in campagna elettorale Trudeau aveva annunciato come provvedimento simbolico urgente; l’aiuto finanziario a Bombardier, che qualche giorno fa ha annunciato tagli ‘sanguinosi’ al personale; e la riforma del sistema elettorale, che ancora non ha l’unanimità nemmeno tra gli stessi liberali.

    Insomma, qualche gatta da pelare c’è e, al netto di un primo anno promettente e di una popolazione particolarmante clemente, sarà nei prossimi 12/24 mesi che Justin Trudeau sarà chiamato a mostrare la stoffa da leader, prendendo decisioni non facili, ma decisive per il futuro del Paese. Perché sognare è lecito, ma con i piedi sempre ben piantati per terra. In politica, così come nella vita.

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  • Vogliono sterminarci, ma è anche colpa nostra!

    Vogliono sterminarci, ma è anche colpa nostra!

    IL PUNTO di Vittorio Giordano

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    Ancora una strage, l’ennesima. Stesso canovaccio, stesso obiettivo: l’Occidente e i suoi ‘rituali’. Dopo la scuola, la metro, il ristorante, il concerto, l’aeroporto e altri luoghi-simbolo, questa volta è toccato ad un lungomare, quello di Nizza, dove migliaia di francesi e turisti festeggiavano il 14 luglio, giorno della presa della Bastiglia, con il naso all’insù per ammirare lo spettacolo dei fuochi pirotecnici. Uno dei tanti modi in cui l’Occidente ‘declina’ il suo divertimento. Questa volta, però, quelle esplosioni fragosose e colorate sono state l’ultima cosa che hanno visto le 84 vittime innocenti, tra cui 10 bambini, colpevoli solo di vivere una vita normale. All’occidentale. A casa loro. Prima di essere brutalmente falciate da un tir guidato da un franco-tunisino residente a Nizza. Un ‘camion assassino’ che ha strappato la vita a chi, proprio in quel momento, stava celebrando la vittoria della democrazia e della libertà sui soprusi dell’assolutismo monarchico (una bella storia conosciuta dai più come la ‘Rivoluzione francese’). Si erano illusi, purtroppo: i soprusi l’hanno spuntata ancora. Oltre 230 anni dopo. Perché il ‘Re Sole’ di ieri, dispotico e repressivo, oggi si chiama terrorismo. Inutile fare gli struzzi: lo jihadismo islamico ci ha dichiarato guerra. Riecheggiano, profetiche, le parole di Oriana Fallaci, vera ‘Cassandra’ di un’epoca, la nostra, improntata alla saccenza, al profitto smisurato ed all’ipocrisia. Una guerra, anzi, una guerriglia subdola fatta di attacchi improvvisi nel cuore delle nostre città. Il loro obiettivo è chiaro: fare più vittime possibili per impressionare e intimidire. Anche a costo di fare vittime musulmane, colpevoli, forse, di essere troppo moderate. L’attacco di Nizza appare come l’ultimo episodio di una saga horror. Gli analisti parlano di una “nuova modalità di attacco”, mai vista in Europa, ma già utilizzata in Medio Oriente. Già in passato Al Qaeda aveva suggerito di utilizzare pick-up per “uccidere chi non è fedele ad Allah”. I sostenitori dell’Isis hanno già “celebrato” il massacro, ma al momento non c’è nessuna rivendicazione ufficiale. Che arriverà: troppo ghiotta l’onda per non cavalcarla. Ma attenzione: la colpa è anche di noi occidentali. Perché, come in altri attentati, a immolarsi, poco importa se da affiliati (regolarmente addestrati) o come lupi solitari (in uno slancio emulativo), sono spesso dei soggetti disagiati e ai margini di una società, la nostra, che non ha saputo integrarli offrendo loro un progetto di vita serio. È l’altra faccia della globalizzazione: vogliamo il villaggio globale per guadagnare di più su mercati sconfinati? Benissimo, anche le merci e le persone si muovono: gli immigrati fanno parte del nostro tessuto sociale. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Mohamed Lahouaiej Bouhlel, 31 anni, stava divorziando, era depresso e aveva problemi di soldi. I vicini lo descrivono come un uomo poco religioso, che non seguiva pedissequamente i precetti della sua religione e che “non aveva fatto per intero il Ramadan quest’anno”. Per il premier Manuel Valls, invece, il terrorista “è indubbiamente legato all’Islam radicale“. Che pregasse o meno 5 volte al giorno, poco importa: odiava il mondo e questo ha rappresentato, a prescindere, l’humus ideale per alimentarne l’istinto omicida. Una persona vulnerabile: il profilo ideale per l’Isis. Insomma, prima di giudicare gli altri, specchiamoci nei nostril limiti. E allora, che ognuno faccia il suo: l’immigrato rispetti la nostra cultura e si adegui ai nostri stili di vita (sarebbe ora che l’islam moderato prendesse una posizione ferma e collaborasse con le forze dell’ordine!), ma l’Occidente si svegli, recuperi i suoi valori (il consumismo non può essere la nostra stella polare) e
    costruisca una società più aperta e inclusiva. Magari imparando dal multiculturalismo canadese. Altrimenti, è presto detto: rinunci alla globalizzazione, costruisca muri e faccia pure la guerra di religione. Ma basta prese in giro, basta ipocrisie!

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  • Gli Usa e la democrazia fondata sulle armi

    Gli Usa e la democrazia fondata sulle armi

    IL PUNTO di Vittorio Giordano

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    Gli Usa, che storicamente si autoproclamano la ‘patria della democrazia’, tanto da esportarla nel resto del mondo, ergendosi a ‘gendarme buono’ (al netto del disarmo Obamiano degli ultimi anni), si scoprono vittime della propria supposta  superiorità. Traditi proprio da quel modello democratico che, in realtà, sembrerebbe essere tutto tranne che un esempio da emulare. Un modello che sta implodendo sul fronte interno, mostrandosì più che mai debole e vulnerabile. Intendiamoci: l’America resta la prima democrazia moderna con una costituzione scritta, promulgata nel 1789, che sancisce la sovranità popolare come fondamento imprescindibile e stabilisce l’equa suddivisione dei poteri. Un sistema che ha visto il mito americano convincere flotte di immigrati a salpare per il Nuovo Mondo alla ricerca delle “magnifiche sorti e progressive” che, spesso e volentieri, si sono rivelate una realtà tangibile ed effettiva. Il successo della democrazia statunitense, del resto, è da sempre legato all’idea di multiculturalismo: a quella capacità, cioè, tipicamente americana di dare vita ad un melting pot, una società omogenea, in cui i diversi componenti tendono ad armonizzarsi all’interno di un’unica cultura. Diffondere la democrazia, poi, è da sempre nel dna a stelle e strisce, a partire dall’internazionalismo liberale di Thomas Woodrow Wilson, passando per la Guerra fredda di Ronald Reagan, l’interventismo liberale di Bill Clinton e l’unilateralismo di George Bush, fino alla promozione multilaterale dei valori americani di Barack Obama. Un modello collaudato, insomma, che però, negli ultimi tempi, sta lanciando segnali di insofferenza inquietanti. Come se quegli stessi anticorpi che ne hanno preservato l’eccezionalità, ora siano alla base del suo rovinoso cedimento. Gli ultimi eventi di Dallas rischiano di far precipitare l’America nella peggiore crisi razziale degli ultimi decenni. Paradossalmente, proprio nel periodo storico che vede un afroamericano, Barack Obama, alla guida del Paese. Una nemesi spaventosa. Troppo lunga è la lista di afroamericani morti ammazzati senza motivo dai poliziotti: i decessi di Alton Sterling, abbattuto senza ragione, e Philando Castile, ucciso mentre cercava il portafoglio per prendere i documenti di identità, sono solo la punta di un iceberg. I dati sulla disparità nel Paese sono lampanti: l’80% dei fermati per controlli a New York City sono neri o ispanici; e, in media, i neri americani sono condannati a pene più lunghe del 10% rispetto ai bianchi. Ma ciò che indigna ancora di più la comunità afroamericana è l’impunità degli agenti responsabili. Come se ammazzare un nero fosse meno grave, un effetto collaterale tutto sommato accettabile. E quindi da insabbiare. L’America sembra essere ripiombata negli anni ‘50 e ‘60, quando non sono mai stati veramente perseguiti i colpevoli di centinaia di neri ammazzati. Come un’abitudine secolare difficile da estirpare. In un Paese in cui la tensione razziale sta superando i livelli di guardia, ad alimentare la faida tra poliziotti e afroamericani, non può che essere la facilità di accesso alle armi da fuoco, il cui abuso, diffuso e compulsivo, rischia di infiammare una situazione già esplosiva. Secondo l’Iriad-Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo, negli Stati Uniti ogni anno oltre 30.000 persone rimangono uccise dalle armi da fuoco. Inoltre, la media giornaliera è di 30 vittime e la metà di loro sono giovani, di età compresa tra i 18 e i 35 anni; addirittura un terzo sono giovanissimi, di età sotto i 20 anni. Il diritto a possedere armi è peraltro sancito dalla Costituzione: il possesso e il porto di un’arma costituisce un diritto civile protetto dal secondo emendamento. Oggi gli USA sono tra i Paesi la cui popolazione è tra le più armate al mondo: i dati del Congressional Research Service parlano di 357 milioni di armi da fuoco in circolazione, su una popolazione di circa 319 milioni di abitanti. Insomma, per le strade americane è più facile imbattersi in un rivenditore d’armi che in un “bar”. Il rapporto è di 6 a 1. Il caffè di Starbucks con i suoi quasi 11mila negozi perde su tutta la linea contro i 65mila rivenditori, che nel 2015 hanno venduto armi da fuoco. Una realtà cristallizzata: tanto che il Parlamento stesso è ostaggio della potente lobby della ‘National rifle association’ e non riesce a modificare le leggi. Uno stallo percepito dai cittadini, i quali, il giorno successivo a un fatto tragico, puntualmente si armano ancora di più per difendersi meglio. Nella migliore tradizione del “Far West”. È questa la democrazia fondata sulle armi, di cui l’America va tanto fiera e che vuole esportare nel resto del mondo? Francamente, se i presupposti sono i grilletti facili e la polizia che uccide gratuitamente, possiamo anche farne a meno. Per noi, “Il buono, il brutto, il cattivo” era e resta solo un celebre film di Sergio Leone, dalla colonna sonora coinvolgente, arrangiata da Ennio Morricone.

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  • Il mondo alza le barricate, Trudeau apre le porte

    Il mondo alza le barricate, Trudeau apre le porte

    IL PUNTO di Vittorio Giordano

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    In un’epoca sempre più votata alla chiusura dei confini (vedi i ‘sudditi’ di Sua Maestà con la Brexit) ed alla ‘fobia’ del diverso/immigrato (vedi Trump con il suo ‘muro’ al confine col Messico), si erge un “anti-eroe dei tempi moderni”, un ‘Bastian contrario’, o forse un ‘leader-non allineato’, magari ‘diversamente illuminato’: Justin Trudeau.

    Il Primo Ministro del Canada non vuole saperne di chiudersi nella sua torre d’avorio e si oppone con straordinario coraggio al nuovo ordine mondiale, che sembra volersi abbeverare ai rigurgiti isolazionisti ed alle recrudescenze populiste. Nel vecchio continente, il trend è sotto gli occhi di tutti: le forze anti-sistema intercettano una fetta sempre più ampia di popolazione indignata con i partiti tradizionali, scettica sulle politiche di accoglienza dei rifugiati, preoccupata per l’aumento della criminalità ed il peso crescente dell’Islam. I successi della destra di “Alternative fuer Deutschland” (AfD) in Germania, come quello del Front National di Marine Le Pen in Francia, del polacco “Diritto e giustizia” di Jaroslaw Kaczynski o dei nazionalisti austriaci del Partito della Libertà (Fpoe) di Norbert Hofer, ma anche l’ascesa di Trump negli Stati Uniti, sono più di una semplice spia di allarme. Il sospetto, l’odio e l’intolleranza guadagnano terreno: gli attacchi terroristici sempre più ravvicinati, sanguinosi e indiscriminati sono altra benzina sul fuoco. La globalizzazione dei popoli (più quella economica) spaventa e spinge le singole nazioni a rifugiarsi nella difesa (e nella riscoperta) delle proprie radici. Forse perché il Canada un vero Paese non lo è mai stato, ha solo 149 anni storia, è ‘protetto’ da un oceano immenso ed è da sempre una terra multiculturale, multietnica e multireligiosa; fatto sta che, ‘guidata’ dal suo Primo Ministro, sembra voler percorrere la strada opposta: quella dell’apertura e dell’inclusione. Tra dicembre e febbraio, Ottawa ha accolto 25 mila siriani (per lo più sponsorizzati dai parenti, già accasati e sulla via dell’integrazione); rispetto ai 217 mila immigrati accolti nell’epoca Chrétien ed ai 250 mila sotto Harper, Trudeau punta ad ‘abbracciarne’ 300 mila nel 2016 (la nuova legge sulla cittadinanza che semplifica le procedure per il passaporto sarà approvata entro ottobre); il Canada punta a ratificare in tempi brevi sia l’accordo economico e commmerciale con l’UE (CETA) che il partenariato Trans-Pacifico (TPP) con altri 11 Paesi strategici come Australia, Giappone e Perù; nel recente summit con Usa e Messico, poi, Ottawa ha deciso di sollevare i turisti messicani dall’obbligo del visto ed ha convinto i 2 Paesi partners ad incrementare l’energia prodotta da fonti rinnovabili (già l’81% del suo fabbisogno è generato da idroelettrico, solare, eolico e nucleare). Ma non è finita qui: in un’epoca in cui il ‘nuovo’ ed il ‘diverso’ sono visti con sospetto, il Canada ha già approvato la legge sulla morte assistita ed ha annunciato la legalizzazione della marijuana, oltre a provvedimenti legislativi a favore dei transgender. Tanto che il Canada, oggi, è il secondo Paese al mondo per indice di progresso sociale (2016 Social Progress Index), dietro solo alla Finlandia. Lo stesso Trudeau  ha partecipato (è la prima volta nella storia) al Gay Pride, che si è tenuto domenica scorsa a Toronto. E il suo governo sta addirittura esplorando la possibilità di introdurre opzioni per il genere neutro nelle carte d’identità. Sarebbe una ‘prima’ mondiale. Per il Ministro degli Esteri, Stéphane Dion, Trudeau rappresenta l’antidoto alla xenofobia: “Incarna il sentimento della giustizia sociale e dell’accettazione delle differenze come un motivo di forza, non come una minaccia”, ha spiegato. Una cosa è certa: piaccia o non piaccia, dall’11 settembre la ‘strategia della tensione’ adottata dall’Occidente non ha pagato. Può apparire scomoda e rischiosa, ma se fosse proprio la “distensione inclusiva”, sulla quale Trudeau sta costruendo le sue fortune, la chiave di volta per un nuovo ordine mondiale?

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  • Fuori Londra, Roma prenda il suo posto!

    Fuori Londra, Roma prenda il suo posto!

    IL PUNTO di Agostino Giordano

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    La Brexit è figlia dell’inefficienza dell’Unione Europea, figlia dello scollamento che c’è tra il popolo e i suoi rappresentanti, tra i bisogni veri della gente e la burocrazia, inefficiente palude. Basti dire che la maggioranza degli inglesi ha votato per l’uscita dall’Ue e la maggioranza dei suoi rappresentanti politici è contro il distacco dall’Ue. Noi italiani ne sappiamo qualcosa: i nostri politici, una volta eletti con i voti del partito X, in Parlamento possono cambiare idee e casacca a loro piacimento. Da qui nasce il Pda italico, il grande ‘Partito Degli Astenuti’. La Gran Bretagna già era con un piede fuori: nell’Ue, ma fuori dalla zona euro; ma, col suo peso, controbilanciava lo strapotere tedesco. Ora la Merkel chi la ferma? Eppure, a Brexit acquisita, nella Londra a guida islamica, parte l’ “indietro tutta”: rivogliamo l’Ue! E 3 milioni di giovani inglesi si fiondano in una petizione online, truffaldina per giunta, nella speranza di commuovere la maggioranza dei parlamentari inglesi, di cui sopra; dimenticando che nel frattempo, proprio per effetto della Brexit, il Premier Cameron si è dimesso e già infuria la battaglia per sostituirlo, tra i conservatori. E la Scozia, come l’islamica London, chiedono di staccarsi dall’Inghilterra per restare nell’Ue. Una reazione a catena che interesserà non pochi stati euroscettici e bloccherà altri che facevano la fila per entrarci. Quindi abbiamo il Popolo inglese contro il Parlamento inglese: in teoria, essendo un Referendum di tipo consultivo, il Parlamento di Londra potrebbe anche non tenerne conto, ma non lo farà. Insomma Regno Unito da una parte, Unione Europea dall’altra. Ma di ‘Unito’, in questi due blocchi, cosa c’è rimasto? C’è grande disunione da una parte e dall’altra. Si dice che anche la regina sia abbastanza contrariata per la Brexit. E allora perché alla vigilia del voto si dava per scontata la vittoria del ‘Remain’? Si dice che anche i sondaggi siano stati taroccati a bella posta. C’è chi legge nella vittoria del ‘No’ uno scontro generazionale tra padri e figli: quest’ultimi si sentono traditi dai genitori e defraudati del loro futuro. In Italia, invece, tra i fan della ‘dittatura Ue’ si distinguono Napolitano, Prodi e Monti, secondo i quali “bisogna impedire ai cittadini di votare su questioni importanti”: parlono proprio loro che questo tipo di Ue e questo tipo di euro l’hanno imposto dall’alto. Brexit che spaventa non poco Matteo Renzi e fa volare il ‘No’ al referendum d’ottobre. Che già Renzi vorrebbe posticipare, e a cui, a scoppio più che ritardato, ha detto di non voler più legare, in caso di bocciatura, la propria permanenza a Roma. Cameron aveva tentato di fare lo stesso, alla vigilia del referendum, però poi ha rassegnato le dimissioni.  In Spagna, invece, la Brexit ha fatto vincere i popolari di Rajoy, che ottengono la maggioranza, ma non assoluta. E sempre la Brexit, inutile dirlo, ha fatto gioire l’Isis. La Brexit ha messo in crisi l’intera Ue, che ora si chiede cosa c’è da cambiare a Bruxelles per non far crollare l’intera baracca. La prima cosa è che l’Ue è nata a tavolino, per scopi commerciali e monetari; ma politicamente, militarmente non è mai partita. A guidarla, oggi, una Commissione Europea, guidata da Juncker, che fa colazione a cognac; e dalla kaiser Merkel, sempre più ‘large’ dentro ‘mise’ coreane. A impepare il tutto, dal 1º luglio assumerà la presidenza di turno dell’Ue il Premier slovacco Robert Fico, che è anti islam e anti immigrazione. La Ue si salva solo se taglia le tasse, se crea posti di lavoro, se depotenzia burocrazie e banche, se crede ai bisogni veri della gente. Se si votasse oggi in Italia, la maggioranza sarebbe per il ‘No Ue’. Fuori Londra, più potere a Roma? Vedremo. Intanto chiudiamo con Fassino. Sulla Brexit ebbe a dire: “La Gran Bretagna vuole uscire dall’Europa? Faccia un Referendum e poi vediamo quanti votano ‘Leave’!”. Un ‘comico’ mancato.

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  • Salvate il soldato Matteo!

    Salvate il soldato Matteo!

    IL PUNTO di Agostino Giordano

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    Al ballottaggio ci sarebbe da mandare queste due immagini: la serenità di Berlusconi operato al cuore, che, sul letto d’ospedale, riceve la telefonata affettuosa dell’amico Putin e il Premier Renzi che, accanto a Putin, al Forum internazionale di San Pietroburgo, l’altro giorno, giochicchiava col proprio cellulare. La disfatta di Renzi è tutta qui: d’immagine e di sostanza. Da ‘rottamatore’ sta per essere rottamato. A parte Milano, lì dove ha imposto suoi candidati ha perso: vedi Giachetti a Roma e la Valente a Napoli. Alla vigilia del primo turno caricava queste amministrative di una valenza nazionale; dopo l’esito del secondo turno, parla di ‘elezioni locali’; a Roma addossa la disfatta a Giachetti, a Torino scarica il patatrac su Fassino, vecchio arnese della politica. Insomma Renzi è confuso, ammette la sconfitta, ma già venerdì 24 darà inizio alle ‘purghe’ dentro il suo Pd, mentre a ottobre il partito celebrerà il Congresso, magari dopo il referendum sulla Riforma Costituzionale. Un ottobre rosso-fuoco, che segnerà forse la fine dell’esperienza politica di Matteo e il suo ingresso, fuori tempo massimo, nel mondo del lavoro. La minoranza del Pd da questi ballottaggi esce rafforzata e farà di tutto per sfilare il Pd a Renzi, sganciarlo dal destino del governo, liberarlo dalla sua condizione di ‘ostaggio’ in mani fiorentine. Il Pd è in rivolta, vogliono la testa di Renzi: già volano i coltelli.

    Roma in mano a Grillo è quanto di più spassoso, di questi tempi, possa offrire il Colosseo. La grillina Raggi, primo sindaco-donna del Campidoglio, che grida ‘Abbiamo conquistato Roma!’, sulla falsariga di un Alarico pronto al saccheggio, è pura adrenalina: lo spettacolo va ad incominciare. A Roma la scoppola la si aspettava, ma a Torino no: il povero Fassino ne è uscito più rinsecchito che mai. Eppure proprio lui, tempo fa si divertiva ad augurare a Grillo di farsi un partito (!), e qualche mese fa augurava alla Appendino di potersi sedere un giorno al suo scranno e provare lei a fare il sindaco! Povero Fassino, adesso lo chiameranno menagramo: non solo Grillo si è fatto il suo partito, ma anche la Appendino, grillina, si è preso il suo posto! E così due capitali storiche d’Italia, Torino e Roma, sono in mano al partito anti-nazione e populista. A scoppio ritardato, Renzi ammette: “La vittoria di M5S non è voto di protesta, ma di cambiamento’, forse per evitare che già da subito inizino le frizioni con le giunta Raggi. Ma cosa dirà il Premier alla Boschi, che scriteriatamente, giorni fa, minacciava la grillina Appendino, in caso di sua vittoria a Torino, di non farle pervenire i finanziamenti statali? A lei e a Matteo andrebbe rasata la cresta.

    Napoli è rimasta in mano a Luigi De Magistris, ex magistrato, ‘sindaco di strada’, antirenziano dichiarato, che però non riesce a mettere ordine in una realtà deliquenziale esplosiva; e adesso, sulla falsariga del grillino Di Maio, anche ‘Gigino’ vuole proporsi come candidato-premier. Milano, a cui il Cavaliere teneva moltissimo, è andata per un soffio a Sala, renziano dell’ultima ora, ma ex-manager della giunta Moratti, forzista. E a Bologna, dove a vincere è stato il Pd Merola contro il 45% di un’ottima leghista, le frizioni con Renzi sono tante .

    La Lega ha deluso, ha vinto in pochi centri importanti, ma ha perso Varese, la sua roccaforte, dopo ben 23 anni. I vari Verdini, Fitto e Alfano, dopo l’esperienza di Milano e in altri centri, continueranno a far parte del centrodestra o torneranno ad accucciarsi nel sottoscala di Renzi, e sicuramente azzerati da Matteo alla prossime elezioni politiche? Berlusconi, una volta finito il mese di riabilitazione, riprenderà a masticare politica e sicuramente vorrà vederci chiaro in casa forzista e nel centrodestra in genere. Proprio da un letto d’ospedale ha fatto capire al mondo il leader che è, a differenza di chi il leader lo fa giocando.

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  • Ora Renzi sta meno sereno

    Ora Renzi sta meno sereno

    IL PUNTO di Agostino Giordano

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    Povero Renzi: tutto il sudore speso per okkupare militarmente la Rai-Tv, e invadere senza pudore da mane a sera le case degli italiani, non ha sortito effetto alcuno. Tutti gli sforzi spesi per accaparrarsi parlamentari, o pezzi di partiti, o giornaloni e giornalisti, o pinocchi in formato Benigni, non sono serviti a nulla. Confondere a ragion veduta amministrative col referendum, nel tentativo di fare le prove generali di ottobre, non ha infinocchiato nessuno.  Nelle regioni rosse il Pd perde diversi punti percentuali; e dove cinque anni fa vinceva a mani basse, andrà al ballottaggio. Pensare di stravincere, dopo aver provocato condanne, disastri e scissioni in casa altrui (FI), non paga. Quel bullismo in salsa chigiana, che asfalta regole, leggi, par condicio e ‘democrazia’, non fa neanche più ridere. La Raggi pentastellata, che vince con distacco enorme il primo turno a Roma, su un Giachetti spaurito, è una sberla in faccia a Renzi, Pd e governo. Nel momento più alto del suo strapotere, inizia il tracollo di Renzi. Di certo, a pochi mesi dal referendum sulle riforme costituzionali, è proprio il Premier a stare meno sereno.

    Certo, i Grillini si presentano come un partito anti-sistema, un partito che porta anonimi, o quasi, alla ribalta, in nome di un populismo e di una protesta che non si sa dove porti. Certo una Raggi, a Roma, sarà peggio di Marino; però i romani, più che stupire il mondo con ‘la prima volta di una donna al Campidoglio’, vogliono veder risolti i loro problemi. Chissà che la Raggi non proponga la famosa quadratura del cerchio: “Raggio x raggio x 3,14”!.

    La Lega, pur colpita dalla tragica morte dell’eurodeputato Bonanno, non ha deluso: la sua parte, all’interno del centrodestra, l’ha fatta tutta, e ora reclama più visibilità per sé e per il suo leader Salvini. A Torino e a Bologna i suoi candidati vanno al ballottaggio col Pd. Certo, è tempo perso dire ora che, insieme, adesso a Roma sarebbe il centrodestra a sfidare la Raggi. Qualcuno dice che sia stato il Cavaliere a volere questa divisione, …ma è fantapolitica.

    Il centrodestra disunito non va da nessuna parte, ormai lo sanno tutti e tutti lo gridano ai quattro venti. L’Italia moderata è maggioritaria in Italia, ma oggi non si sente rappresentata dai partiti in campo; non c’è partito o leader che la soddisfi. In questa tornata, non solo si è vinto poco, ma, dove si è corso disuniti, si è addirittura rimasti fuori dai ballottaggi. Berlusconi invecchia e in molti – troppi – negli anni l’hanno sfruttato, tradito e abbandonato; la soluzione, ora, è rifondare il centrodestra: trovare la quadra per una federazione di partiti del centrodestra, oppure dare vita ad un nuovo soggetto dove far confluire le diverse anime moderate. Una scelta che non può però prescindere dall’esito del referendum di ottobre sulla Costituzione Boschi-renziana e sulla forma definitiva che assumerà l’Italicum. Intanto, però, in vista dei ballottaggi, è obbligatorio sotterrare le asce di guerra e impegnarsi a far vincere i propri candidati moderati.

    Una cosa mi tocca dirla anche nei confronti del Partito Astensionista, che si è ‘accontentato’ del 44%: dire “Non vado a votare, tanto non cambia niente!”, è sbagliato; infatti, ‘se non si va a votare, è sicuro che non cambierà mai niente’. Sui napoletani, poi, – che in De Magistris hanno toccato con mano il nulla assoluto, eppure continuano a votarlo – che dire? O lo fanno perché l’ex pm è dichiaratamente anti-renziano o perché amano vivere nella precarietà continua, da pulcinella incalliti. Berlusconi ha già annunciato: “Il 19 giugno voterò scheda bianca, a Roma”. Né inciuci, né apparentamenti improponibili. Anche Renzi, giorni fa, si diceva contrario agli inciuci. Ma come? E st
    are con Casini-Alfano-Verdini che cos’è?

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