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  • Primi 100 giorni:Trudeau non delude le attese

    Primi 100 giorni:
    Trudeau non delude le attese

    IL PUNTO di Vittorio Giordano

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    La ‘Trudomania’ non accenna a placarsi. Continua la luna di miele tra il Primo Ministro Justin Trudeau e i cittadini/elettori canadesi: il colpo di fulmine dello scorso 19 ottobre non è stata una semplice infatuazione, una passione ‘infuocata’ e irragionevole, irrefrenabile ma di breve durata, ma l’inizio di una storia d’amore che ha radici profonde e sembra destinata a durare a lungo. In parte anche di riflesso, per eccesso di antipatia per il governo Harper: era così tanta la voglia di voltare pagina, che Trudeau gode di un credito enorme (anche se non infinito). La popolarità del governo liberale, infatti, continua a crescere a quattro mesi dal voto che ha sancito un cambio radicale dopo i circa 10 anni ininterrotti di ‘regno’ conservatore. A certificarlo due sondaggi identici: quello condotto da Léger, tra il 1º ed il 4 febbraio, e pubblicato da ‘Le Devoir’, secondo cui il sostegno attraverso il Paese sarebbe del 49%; e quello realizzato il 16 e 17 febbraio dall’istituto Forum Research, e pubblicato dal ‘Toronto Star’, secondo cui oggi gli elettori accorderebbero, appunto, il 49% dei consensi al Partito Liberale. Ovvero: il 10% in più di quanto già fatto in occasione degli scrutini di ottobre. Con 22 punti percentuali di vantaggio sui Conservatori e addirittura 34 sui Neodemocratici. Due istituti di statistica diversi (e spesso in competizione tra loro), che hanno ‘partorito’ lo stesso risultato. A scanso di equivoci. Una popolarità quasi ‘bulgara’ per Justin Trudeau: dopo 100 giorni di governo, i Liberali viaggiano col vento in poppa. Merito soprattutto delle promesse mantenute: a tempo di record, infatti, Justin Trudeau sta trasformando in provvedimenti legislativi tutti gli impegni presi in campagna elettorale. Anche quelli meno ‘attraenti’, come il rosso di bilancio già quantificato in almeno 18.4 miliardi di dollari per il biennio 2016/2017 (rispetto ai 10 preventivati). Un ‘male necessario’, una pillola indigesta da prendere col naso turato per rilanciare l’economia attraverso massicci investimenti in infrastrutture e misure fiscali a favore della classe media. Una scommessa che l’opinione pubblica ha già ‘sposato’ senza colpo ferire. Un’agenda fitta di impegni, quella del governo, che nell’ultima settimana è stata scandita da due importanti ‘colpi messi a segno’: l’ultimo rifugiato siriano, dei 25 mila previsti, è stato accolto in Canada il 27 febbraio scorso, mentre il Ministro dell’Immigrazione John McCallum ha depositato giovedì scorso una nuova legge sulla cittadinanza che abroga quella recentemente adottata dal Harper (la legge C-24. Senza dimenticare il ritorno al formulario obbligatorio lungo per il censimento del 2026, la fine dei raid aerei in Iraq e Siria, il dialogo con le Province e l’apertura alla commercializzazione della marijuana. Intendiamoci: spesso si tratta di roboanti annunci (anche se resi più appetibili dai crismi dell’ufficialità), non sono mancati gli scivoloni (come la reazione blanda all’indomani degli attentati a Parigi e in Burkina Faso che sono costati la vita a 6 quebecchesi o i ripetuti selfie da ‘sex-symbol’ in diversi summit internazionali) e le decisioni sulle questioni più spinone (come l’oleodotto Énergie Est) tardano ad arrivare. Prima o poi il governo dovrà esporsi e prendere decisioni anche scomode e impopolari ma utili per il futuro del Paese. In generale, però, è lo ‘stile Trudeau’ tout court ad aver fatto breccia nel cuore dei canadesi: a partire dalla scelta di un governo con più donne, più autoctoni, più esponenti delle regioni e ‘figli’ del multiculturalismo; un esecutivo più aperto, trasparente e all’ascolto. Una rivoluzione culturale. Piace il tono ottimistico, la freschezza e l’entusiasmo che caratterizza tutte le uscite pubbliche dei Ministri e del Primo Ministro. Naturalmente la politica non è solo annunci in pompa magna, sorrisi a 36 denti, occhiolini e strette di mano: il 22 marzo il governo depositerà la prima manovra finanziaria. Sarà la prova del fuoco per un esecutivo che da 4 mesi vola sulle ali dell’entusiasmo. Le scelte, concrete e circostanziate, condizioneranno per forza di cosa la vita quotidiana dei cittadini. E potranno alimentare una ‘Trudomania’ chiamata a dimostrare, una volta per tutte, di non essere solo un fuoco di paglia, ma amore a prima vista: quello vero e senza compromessi.

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  • All’Avana fa scalol’ecumenismo cristiano

    All’Avana fa scalo
    l’ecumenismo cristiano

    IL PUNTO di Agostino Giordano

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    Il Papa ‘venuto dalla fine del mondo’, spiazza sempre coloro che lo vogliono decifrare, spiegare. Vai per capire una cosa e lui già ne ha detta, o fatta, un’altra. C’è chi fa le pulci allo svolgimento del Concistoro che lo elesse Papa, c’è chi lo critica per le sue scarpe nere e la sua croce di legno; per la sua residenza a Santa Marta e per i modi confidenziali che ha con tutti. È Gesuita, ma fa il francescano; di più, sceglie il nome Francesco. È un Papa controcorrente. È un ‘Papa di ruolo’ che convive con un ‘papa emèrito’, e anche questo è un evento, ma sta a significare che anche un Papa può ritirarsi: bisogna farci l’abitudine. È un Papa venuto ‘dal sud del mondo’, da quel mondo povero e violentato nella sua povertà. È un Papa argentino, ma di origini italiane. Un Papa a cui piace la pulizia della Chiesa, la povertà della Chiesa. Che spesso e volentieri critica il capitalismo, critica la stessa proprietà privata. A volte sembra che – a differenza di un San Giovanni Paolo II, che combattè il Comunismo, anzi lo fece crollare, aiutato da Reagan – Papa Bergoglio cerchi di dare spallate al Capitalismo, aiutato da Castro. Papa Wojtyla giocava ai confini dell’Impero Comunista per abbatterlo, Papa Bergoglio va da Castro per criticare l’America. Ambedue hanno conosciuto, sotto denominazioni diverse, i due cancri del Novecento, nazismo e comunismo: regime contro l’uomo, contro la dignità dell’uomo. Papa Bergoglio sembra fare l’occhiolino alla ‘teologia della liberazione’, così aspramente avversata dai suoi predecessori. La povertà è una delle piaghe che Papa Francesco vorrebbe sradicare, ma non è facile. Anche perché questo non solo è reso più difficile dal particolare momento di recessione internazionale, ma perché acuito dalla Migrazione di massa che dal Medioriente e dall’Africa, ‘sud del mondo’, sta invadendo l’intera Europa. Migrazione innescata in primo luogo dalla ‘primavera araba’ che ha sconvolto la geografia politica del Nordafrica, sdoganandovi tutte le forme estremiste musulmane; quindi acuita dalla ‘crisi siriana’ e da altre pesanti frizioni d’area. In sottofondo, la continua barbara persecuzione contro i cristiani da parte delle sigle estremiste dell’Islam. Ecco, questa persecuzione feroce ricompatta i Cristiani: se motivi politici dividono Europa-Usa-Russia, l’offensiva dell’Isis li ricompatta religiosamente. L’Unione dei Cristiani è un’altra scommessa di Papa Bergoglio, su cui punta molto. Elogia apertamente Putin per la determinazione, se non per i modi spicci, con cui da solo fa la guerra all’Isis. E poi lavora, tra il diplomatico e il politico, a contattare le Chiese Orientali: va a Costantinopoli e incontra il  Bartolomeo, ed è amore fraterno a prima vista. Va a Cuba una prima volta e la sdogana politicamente; vi ritorna una settimana fa e vi incontra il Patriarca di tutte le Russie, lì in visita ufficiale; quel Kirill che, appena eletto dopo Alessio II, si fece notare per il suo Ecumenismo e voglia di Unità. Un incontro storico, dopo mille anni. Naturalmente, in questo tour de force, Papa Bergoglio non poteva dimenticare gli Stati Uniti, cattolica ma soprattutto protestante. Dunque il Pontefice ha tessuto una tela a trame strette politico-religiose, che, ad un primo esame, potevano sembrare strane o rischiose. Sull’incontro Papa Cattolico-Patriarca Ortodosso Russo avrà lavorato ai fianchi anche lo stesso Putin, sicuro com’è che, l’accordo militare-politico questa volta va cementato con la fede cristiana. L’Unità dei Cristiani può essere la leva giusta per combattere, convinti, il terrorismo islamico. Forse il modo migliore per estirpare questo cancro del XXI secolo e per far sparire divisioni politiche e ritirare embarghi economici fratricidi all’interno dell’Europa. Non per niente, al termine dell’incontro, all’aeroporto dell’Avana, Papa Francesco e il Patriarca Kirill hanno diffuso un comunicato congiunto, in cui hanno espresso la speranza di riunire le due Chiese e hanno chiesto ai leader del mondo di proteggere i Cristiani dalle persecuzioni. Come inizio non è poco. È un esempio concreto di Unità. Di problemi da discutere, tra il Vaticano e Mosca, ce ne sono tanti, ma non insuperabili. Le reciproche scomuniche, di mille anni fa, oggi possono elidersi in un ‘Amin’.

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  • Una carnevalata‘made in China’

    Una carnevalata
    ‘made in China’

    IL PUNTO di Agostino Giordano

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    Tra il serio e il faceto goliardico

    Quando questa ‘bischerata’ finirà, passerà alla storia come lo scherzo di carnevale più riuscito della storia (si fa per dire) italiana. Non mi riferisco al Carnevale 2016, – una cosa seria, al confronto – ma alla gran carnevalata renziana, che ha portato un manipolo di ragazzotti con tanto di feluca leopoldesca dall’Arno al Tevere senza colpo ferire: muniti solo di un lasciapassare bersaniano e un passaporto napolitano. Un po’ troppo per uno che viene dalla sacrestia bindiana e poi dirottato a sfogliare margherite, tra un pranzo provinciale e una bistecca fiorentina. Un po’ poco per rivoluzionare il belpaese, già incasinato di suo; ma per uno che nasce con la camicia etruria, nella regione rossa e col ‘partito della nazione’ fisso in zucca, è normale vestirsi da genserico, calare su roma e “saccheggiarla”. Alla maniera machiavellica, s’intende. Un carnevale carnascialesco. E tra primarie rocambolesche, tra un bersani infinocchiato e un letta sfrattato, il nostro vandalo, in un colpo solo, diventa segretario e premier. Un ambo secco. Che, mischiato al porcellum, – alias maggioranza bulgara in parlamento – gli prospetta un potere da ventennio. Prendere in giro il buon berlusca e poi sbolognarlo dal senato è uno snodo rischioso: la beffa è scandalosa, ma la maschera di genserico pesa più del raziocinio. Il patibolo è pronto, i robespierre boldrini e grassi sono pronti a calare la mannaia. E omicidio fu, per i nemici; e parricidio fu, per follini e casini, passati al nemico con armi e fini.  A centinaia, nel carnevale parlamentare, le maschere si riciclano alla velocità della rumba, lo snodo centrale è il fritto misto, dove si sverna in cerca di una poltrona.  Gli va bene tutto, al pifferaio fiorentino. ‘Spero, promitto e iuro reggono l’infinito futuro’ recita una rima baciata latina. E Renzi-Lucignolo promette e spergiura a iosa, sperando che gli credano. E gli credono, gli credono: di pinocchi è pieno il parlamento. Paese e parlamento: due rette parallele che non si incontrano più. Il parlamento fa le leggi e il paese le subisce sulla propria cute. Il parlamento è un mercato di vacche al chiuso. Se si svegliasse De Pretis, inventore del suk parlamentare, gli verrebbe un colpo secco. Si risparmia vendendo le auto blu? Vendiamole, ma solo quattro: un fumo di gomme lisce che alla gente basta. Le Province vanno abolite? Aboliamole sulla carta ma la spesa aumenta. Una legge è difficile da approvare? Niente voto segreto, ma palese. L’Esposizione di Milano può essere turbata da inchieste giudiziarie? Si impone alle toghe di starsene buoni, e poi, a babbo morto, li si ringrazia pure, per questo loro piacere. Se non fosse una carnevalata, ci sarebbe da lanciargli qualche ‘putto’ in faccia. Di plastica, s’intende. Ma Renzi è un mangiafuoco, un lucignolo, un arlecchino: una, nessuna, centomila maschere. Dipende dal contesto, dall’interlocutore, dal tappeto su cui passa.

    E poi c’è alfano, il no-quid fatto fantoccio, che dice sempre no e po fai sì; e poi boschi e cirinnà che vendono leggi e riforme a coppie gay o a senatori in odor di giardinetti. Grillo dice prima sì e poi no alla cirinnà, e giù viene il teatro di balocchi, e zanda sbanda, e marino sbevacchia, e sala vince primarie piddine milanesi, dove le code sono cinesi e gli affari portoghesi. Che Carnevalata! Con il premier che non accetta mirra, ma solo incensi e ori; e bave e ostriche e spumante. Sul senato cassato ci sarà referendum, e il premier ci mette la faccia, pardon la maschera: se perdo, me ne andrò. Futuro, come sopra. E intanto promette, promette e spergiura. Ha il parlamento in pugno e sforna leggi come fossero noccioline, tanto andranno tutte a referendum. Lui intanto incassa, poi si vedrà. E il belpaese affonda. Gli emigrati sognano ‘l’Italia che non c’è’ e feluche felici di sbavare ‘il renzipensiero’ se la ghignano dietro maschere qualunque. E passa il carro e imbarca voti e cirinnà. Su carro carnascialesco, ‘il ragazzotto fiorentino’ va. Adda passà a nuttata.

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  • Un terremoto politicoper una Nouvelle Époque

    Un terremoto politico
    per una Nouvelle Époque

    IL PUNTO di Vittorio Giordano

    Rimpasto di governo a Québec

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    Il rimpasto era nell’aria: da troppi mesi, infatti, il governo liberale versava in uno stato vegetativo, vittima delle sue paure e dei limiti imposti da un’austerità esagerata (in nome dell’inviolabile ‘comandamento’ del deficit zero) che aveva finito per paralizzarne l’azione riformatrice. Un governo boccheggiante, senza spinta propulsiva, sempre più impopolare, che andava avanti per inerzia, col pilota automatico, ormai prossimo a contorcersi su se stesso fino all’inesorabile e fatale stretta finale. I tagli, consistenti e ripetuti, si sono tradotti in un peggioramento dei servizi pubblici in settori nevralgici come la Sanità, l’Istruzione, gli Asili-nido e l’Assistenza sociale. Un semplice restyling non avrebbe sortito alcun effetto. Philippe Couillard ha avuto il coraggio, il tempismo e la lucidità di correre ai ripari senza curarsi dei rischi, sventando un ‘corto circuito’ dalle conseguenze irreparabili: ha fatto fuori personalità di spicco puntando su Ministri giovani, molti dei quali del gentil sesso (il 40% della compagine governativa) e alle prime armi, ma competenti e un pò “incoscienti”, gli unici con le carte in regola per rivitalizzare un governo invischiato in mille incertezze e indugi (al netto della congiuntura internazionale sfavorevole) che ne hanno sancito una pericolosa apatia. Su 28 Ministri, in 23 vengono riconfermati, ma addirittura 14 si scambiano le responsabilità, mentre 5 sono i volti nuovi e 2 gli ‘epurati’: un vero e proprio terremoto politico. Quello appena nato è un governo più giovane, femminile e regionale, quindi più “cool & friendly”, che si inserisce alla perfezione nel nuovo solco inaugurato da Justin Trudeau a livello federale (“Perché siamo nel 2016!”). Ma costituisce, soprattutto, un’astuta mossa elettorale che mira a rimodellare il messaggio e ad abbellire l’immagine di un governo che nel 2018 si gioca la riconferma. Dietro i buoni propositi, insomma, si cela sempre il calcolo politico di macchiavellica memoria. Il simbolo di questa “Nouvelle Époque” è sicuramente la neofita Dominique Anglade, 42 anni, neo Ministro dell’Economia: una montrealese di origini haitiane, madre di 3 bambini, con un ottimo curriculum (Laurea in Ingegneria al Politecnico e Master in Business presso la Scuola di Alti Studi Commerciali), ma parlamentare solo dallo scorso novembre (in occasione del voto supplettivo nel collegio di Saint-Henri–Sainte-Anne). Una perfetta sconosciuta, preferita a ‘pesi massimi’ come Pierre Arcand, Martin Coiteux e Sam Hamad. Per Couillard è una scommessa, un investimento più che un azzardo: dopo gli stenti della prima parte della legislatura, il Primo Ministro punta sulla freschezza e sull’entusiasmo di una giovane professionista che, libera dagli schemi mentali che da sempre inquinano il teatrino della politica ad ogni latitudine, potrà godere di quella ‘leggerezza’ e tranquillità necessari per invertire una tendenza preoccupante. Del resto le aspettative del governo sono state alte fin dal giorno del suo insediamento, dopo che Couillard, in campagna elettorale, aveva promesso 50 mila nuovi posti di lavoro all’anno, oltre al rilancio del Piano del Nord e della Strategia marittima. Tutti obiettivi largamente disattesi. Ci vorrà una politica economica creativa per rimettere in moto un sistema frenato dalla penuria di manodopera qualificata, dalla morosità delle piccole imprese e dalla carente produttività rispetto all’invecchiamento della popolazione. Soprattutto alla luce di un PIL che cresce meno rapidamente del previsto, e delle esportazioni che arrancano nonostante il dollaro debole. Ma Couillard, ispirato dal suo omologo federale Trudeau, guarda all’avvenire con rinnovata fiducia e punta con entuasiasmo alla Quarta rivoluzione industriale, quella digitale. Guarda caso, altra mansione che afferisce alle prerogative di Dominique Anglade, più che mai emblema di un governo che punta alla prosperità, ma anche alla solidarietà sociale. E qui il neo Ministro calza a pennello, vista la sua esperienza come presidente di ‘Montreal International’, un organismo no-profit per attrarre investimenti esteri nella metropoli. E proprio un governo ‘empatico e all’ascolto’ potrebbe rappresentare la chiave di volta per i Liberali. Ma soprattutto per le tasche dei cittadini della Belle Province.

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  • Economia e terrorismo:Trudeau alla prova dei fatti

    Economia e terrorismo:
    Trudeau alla prova dei fatti

    IL PUNTO di Vittorio Giordano

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    La sbornia post-vittoria elettorale è finita. Dopo il pieno di voti incassato alle elezioni del 19 ottobre (che ha schiantato Harper e ridicolizzato Mulcair) e il ‘Discorso del trono’ del 4 dicembre con i punti-chiave dell’azione di governo decantati ‘urbi et orbi’, lunedì scorso il governo liberale guidato da Justin Trudeau è tornato al lavoro con la riapertura ufficiale della sessione parlamentare (dopo 6 settimane di ferie). Un Parlamento ‘amico’, vista la schiacciante maggioranza di cui gode l’esecutivo, che quindi non avrà nessun problema a tradurre in leggi i ‘desiderata’ del Primo Ministro. L’opposizione, infatti, non ha né i numeri né la leadeship per opporsi in maniera efficace e continuativa. La strada, dunque, è più che mai spianata e in discesa. Il governo, inoltre, gode ancora di uno straordinario consenso popolare: la luna di miele con l’opinione pubblica continua.

    Eppure nulla è scontato, soprattutto alla luce della congiuntura internazionale deficitaria. Due i fronti caldi su cui il governo è chiamato ad esporsi con provvedimenti risolutori: l’economia, che non accenna a ripartire, complice anche il prezzo del petrolio in caduta libera, e il mercato del lavoro che arranca; e la lotta al terrorismo internazionale, dopo la morte di 7 canadesi negli attentati in Indonesia e Burkina Faso, e la scelta di interrompere i raid aerei in Siria ed Iraq. Sull’economia, la strategia di fondo è confermata: nonostante il petrolio ai minimi storici e il dollaro debole, il Ministro delle Finanze, Bill Morneau, resta fermo sulla posizione di iniettare 60 miliardi in 10 anni (di cui 20 nei prossimi 2, la metà dei quali proveniente dal “Nuovo Fondo Cantieri Canada” creato dai conservatori) a favore di un’articolata serie di interventi infrastrutturali. Un investimento rischioso e massiccio, una ‘cura da cavallo’ per far ripartire un’economia in stallo, che non esclude un piano di sgravi fiscali a favore della classe media, che costeranno alle casse dello stato tra i 1.2 ed i 1.7 miliardi. Per un budget che non potrà prescindere da un deficit di almeno 10 miliardi di dollari (e sarà così fino al 2020, quando è previsto il ritorno all’equilibrio di bilancio). Insomma, basta austerità: lo Stato torna protagonista. Trudeau vincerà la sua scommessa se saprà diversificare le entrate dello Stato (che non può dipendere solo dalle risorse naturali, in un sistema sempre più competitivo e globalizzato), ma soprattutto se saprà investire sul futuro. “La crescita e la prosperità – ha dichiarato recentemente Trudeau, a Davos – non sono legate soltanto da ciò che si trova sotto i nostri piedi, ma soprattutto a ciò che si trova tra le nostre orecchie”: un esplicito richiamo a settori strategici come la robotica, le biotecnologie ed un’economia a bassa emissione di carbonio. Una scelta coraggiosa, che potrebbe rivelarsi decisiva nel lungo periodo. I liberali, poi, dovranno fare chiarezza sul ruolo che riveste il Canada nella lotta al terrorismo internazionale: l’annuncio di Trudeau di rititare i CF-18 dalle missioni sui cieli di Iraq e Siria (che però di fatto continueranno almeno fino al 30 marzo, quando scadrà il mandato votato dal precedente Parlamento) non mette al riparo il Paese dalla furia sanguinaria di matrice islamica, come dimostrano i recenti attacchi che sono costati la vita ad alcuni connazionali; ma soprattutto rimette in discussione il peso geo-politico del Canada stesso, visto che il Ministro della Difesa Harjit Sajjan è stato escluso dal summit dei principali Paesi (Francia, Usa, Australia, Germania, Italia, Regno Unito e Paesi Bassi) impegnati a combattere l’organizzazione jihadista dell’Isis. L’obiettivo di Trudeau è quello di disimpegnare militarmente il Canada, rafforzandone il ruolo umanitario e diplomatico. In un mondo perfetto sarebbe la scelta preferibile, ma, considerata la virulenza di un terrorismo fondamentalista globale, forse gli alleati occidentali si aspettano un Canada più interventista e meno buonista. A economia e terrorismo, poi, si aggiungono sfide altrettanto spinose come l’adozione di una legge per inquadrare l’eutanasia, l’accoglienza di altri 12 mila rifugiati (su 25 mila in totale), la legalizzazione della marijuana, la consegna a domicilio della posta, la revisione del modello di finanziamento del sistema sanitario, la riforma del sistema elettorale, la gestione dei cambiamenti climatici (con la riduzione dei gas a effetto serra) e la modifica della Legge sulla Cittadinanza “a due velocità”. Le aspettative sono alte: per Trudeau è già tempo di risposte.

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  • Nessuno tocchi il Natale,il presepio e l’albero!

    Nessuno tocchi il Natale,
    il presepio e l’albero!

    IL PUNTO di Agostino Giordano

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    La persecuzione dei Cristiani, iniziata con il Natale di Gesù Cristo, 2015 anni fa, non è mai finita. Era il tredici novembre, e a Raqqa, capitale del Califfato, saltava per aria, disintegrato da un raid americano, Jihadi John, il tagliagole inglese, famoso per aver decapitato almeno sette ostaggi cristiani. Non passavano neanche 24 ore e, a Parigi, terroristi islamici scatenavano l’inferno, provocando una carneficina. 14 novembre 2015: un giorno nero per tutta l’Europa. Volevano fare migliaia di vittime: hanno provocato “solo” 135 morti e 300 feriti. Un attentato al futuro dell’Europa, alla sua civiltà economica, culturale e religiosa. ‘È la terza guerra mondiale’: così l’ha chiamata Papa Francesco. Forse la partita ‘Islam-resto del mondo’. I dietrologi sono lì con i loro manuali di storia. L’unica verità è che la civiltà moderna parte da Gesù Cristo. Oggi siamo nel 2015 d.C. (dopo Cristo). Tutti i Vecchi Testamenti sono superati. Il Dio giustiziere e vendicativo non c’è più, soppiantato da un ‘Dio misericordioso’. Papa Francesco, capo della Chiesa Cattolica, a rischio della propria vita, è andato in Africa, preceduto e accompagnato da minacce di attentati vari. Ma lui, fiducioso, c’è andato: a testimoniare Cristo, tra i suoi fedeli, dicendo Messa negli stadi; e a trovare gli imam, nella loro Moschea, scalzo. Ma non porta in mano coltello o scimitarra: non ne ha bisogno, annuncia solo il Vangelo cristiano. L’Europa laica, attraverso i suoi capi, vuole ribadire l’intangibilità della propria civiltà da parte di chicchessia, immigrati islamici inclusi. E farebbe bene a tirare, tre volte al giorno, le orecchie al trio Monti-Letta-Renzi che da 4- anni-4 ha fatto dell’Italia il ‘Grand Hotel’ dei migranti; nonchè a quel furbetto turco di Erdogan, che, attraverso il suo corridoio umanitario’(!), ha fatto sciamare in Europa orientale, una milionata di ‘rifugiati’ siro-babilonesi. Erdogan, sì, che ha capito come si sta al mondo: da una parte fa invadere l’Occidente dagli islamici, si fa sempre più islamico, abbatte caccia russi e bombarda i curdi; dall’altra sta con la Nato, vuole entrare in Ue, gli piace il gas russo e si sollazza con Obama. Ecco, lì forse scoppierà la guerra. All’ “Eurabia’ della Fallaci, poi, ci stiamo arrivando; o già ci siamo? L’Occidente ha capito chi lo vuole destabilizzare, ha capito chi vuole la guerra mondiale? Non sarà una guerra tra poveri e ricchi, ma una guerra di civiltà, o meglio, di religioni. “È l’inizio della tempesta” – è il messaggio del Califfato, all’indomani della strage di Parigi. ‘Sbaglia e pecca chi uccide in nome di Dio, credendo di fargli piacere’ – ha detto il Papa; sbaglia il terrorista islamico che uccide in nome del mondo islamico: l’omicidio è un atto personale. Il mondo occidentale-cristiano, ha ammesso da tempo i propri errori storici, guarda oltre, accoglie chi emigra. Ma chi emigra non può permettersi di dettare legge in casa altrui, in nome di una propria civiltà-religione: in Occidente deve stare con due piedi in una scarpa, perché già troppo l’Occidente fa per lui, a scapito dei propri poveri e disoccupati. Prima di volerle imporre all’Occidente, le proprie idee estremiste, le imponga all’interno del proprio Paese: lì lotti per le proprie idee, lì almeno lo capiscono di più. Certo, fino ad oggi mai l’estremismo islamico aveva creato un Califfato, e allora è lì che bisogna intervenire, senza se e senza ma; se non è già troppo tardi. Curdi, Russi e Francesi parlano la stessa lingua, seguiti da Germania e Gran Bretagna, ma anche da americani e cinesi. Renzi ha scelto la via meno pericolosa: la guerra all’Isis va fatta su internet e attraverso la cultura; ma senza fretta: bisogna parlare, ponderare, discutere, vagliare, misurare e solo poi decidere. E naturalmente, a farlo, sarà il Parlamento.

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  • Rifugiati? Sì, ma non a tutti i costi

    Rifugiati? Sì, ma non a tutti i costi

    IL PUNTO di Vittorio Giordano

    25 MILA SIRIANI  IN CANADArefugies

    In attesa del ‘Discorso del Trono’ (fissato per venerdì 4 dicembre), che darà il ‘la’ ai lavori parlamentari della 42ª Legislatura Federale e svelerà ‘urbi et orbi’ le linee programmatiche del nuovo governo liberale, Justin Trudeau si è già fatto apprezzare per una qualità più unica che rara in politica: la coerenza. Il Premier, infatti, sta mantenendo tutte le promesse fatte in campagna elettorale: no al pedaggio sul nuovo ponte Champlain, no ai raid in Siria ed Iraq (meglio la formazione delle truppe locali), sì alla posta recapitata a domicilio, sì al niqab durante il giuramento per la cittadinanza, limiti più stringenti ai gas serra. In attesa della legalizzazione della marijuana e dell’abolizione della controversa legge sulla cittadinanza ‘a due velocità’, in queste ore Ottawa sta mettendo a punto il piano – che costerà 1.2 miliardi in 6 anni – per accogliere 25 mila rifugiati siriani entro il prossimo 31 dicembre. (che vanno ad aggiungersi ai 3.000 già in loco). Una vera e propria corsa contro il tempo. Il Québec, a sua volta, ne ospiterà altri 3.625 (per un costo totale di 29 milioni). L’Europa ne ha già accolti 510 mila, di cui 1/5 in Germania. L’attentato terroristico di Parigi, che ha provocato 129 morti e 350 feriti, non ha fatto registrare nessun arretramento sulla tabella di marcia (anche se, secondo CBS News, saranno ammessi solo famiglie, donne e bambini). Una posizione, tutto sommato, condivisibile. Del resto, sia chiaro: i profughi non sono terroristi, ma scappano dalla barbarie dell’ISIS (che, perciò, li considera dei traditori). E in Canada, grande 33 volte l’Italia, possono trovare l’Eldorado: l’ex rifugiata afghana Maryam Monsef oggi è Ministro delle Istituzioni democratiche. Eppure, nessuno può escludere a priori che qualche terrorista, anche del gentil sesso, possa infiltrarsi tra i rifugiati, approfittando dei controlli ‘sommari’ e della predisposizione benevola dei Paesi di accoglienza. Tant’è vero che è ancora al vaglio degli investigatori francesi l’ipotesi che uno degli attentatori fosse un siriano passato dalla Grecia. Mentre è un fatto accertato che, il 17 novembre scorso, all’aeroporto di Instanbul, la polizia turca ha arrestato 8 marocchini diretti in Germania dopo essersi spacciati per profughi siriani. Alzi la mano chi può escludere la possibilità di jidaisti camuffati da affettuosi padri di famiglia in mezzo a schiere sofferenti di donne e bambini. Sarà pure improbabile, ma non impossibile. Insomma, la prudenza non è mai troppa: meglio non correre rischi. Nessuno spazio alla paranoia, ma neppure all’indole radical-naif. La pensano così il Premier dello Saskatchewan Brad Wall, il Sindaco di Toronto John Tory e la Camera americana, che ha bloccato il programma di accoglienza di 10 mila rifugiati siriani e iracheni nel 2016. Ma la pensano così, soprattutto, la maggioranza dei canadesi (il 54% secondo Angus Reid Institute Poll) e dei quebecchesi (il 60% secondo CROP-La Presse). I quali non dicono ‘no a prescindere’ e ‘tout court’, ma chiedono semplicemente di dilatare i tempi di accoglienza, per poter rafforzare le misure di sicurezza. Del resto: perché proprio 25 mila? E perché entro, e non oltre, il 31 dicembre? Perché questa ostinata fretta? Il tempo dei proclami è finito: meglio seguire le logiche della realpolitik. Alla luce dell’attacco in corso alla civiltà occidentale, la tradizionale indole umanitaria del Partito Liberale, la storica predisposizione all’accoglienza (basti pensare ai tanti ungheresi, vietnamiti, kosovari e haitiani accolti nel passato) di un Paese come il Canada, che fa del multiculturalismo il suo fiore all’occhiello, deve cedere il passo alla ragion di stato ed al ‘diritto inviolabile alla sicurezza’ dei suoi cittadini. Come? Rivedendo tempi e numeri di un ‘tour de force’ ingiustificato. Basti pensare che nel 2014, in Canada, sono state 15 mila le richieste di asilo presentate, con i seguenti tempi di trattamento: 15 mesi per l’80% dei casi seguiti dal governo; 53 mesi per l’80% dei casi sponsorizzati da familiari o gruppi religiosi; 26 mesi per l’80% dei casi che hanno depositato una domanda al loro ingresso nel Paese. Se anche il processo di selezione dei profughi siriani avesse preso il via giovedì 12 novembre, per concludersi il 31 dicembre, i funzionari dell’immigrazione avrebbero solo 35 giorni per passare al setaccio la vita di 20 mila persone (dando per scontato che 5 mila siano bambini). Cioè 571 al giorno, 71.3 all’ora, 1,8 al minuto! Il che cozza contro i ‘tempi reali’ di trattamento delle domande di asilo, che normalmente possono arrivare fino a 36 mesi, secondo quanto indicato sul sito del governo. Un azzardo! I rifugiati vanno accolti, ma non così in fretta. E non a tutti i costi. Il sacrosanto diritto all’accoglienza dei rifugiati non può ledere il diritto alla sicurezza dei canadesi.

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  • Basta ipocrisia e buonismo

    Basta ipocrisia e buonismo

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    IL PUNTO di Vittorio Giordano

    Siamo in guerra, una guerra subdola, spiazzante, strisciante, invisibile, che ci è stata dichiarata e che non possiamo più esimerci dal combattere. “È un pezzo di Terza Guerra Mondiale”, ha ammesso senza giri di parole Papa Francesco. “È un attacco alla pace di tutta l’umanità – gli ha fatto eco Padre Federico Lombardo, portavoce della Santa Sede – che richiede una reazione decisa e solidale per contrastare il dilagare dell’odio omicida in tutte le sue forme”. Anche per la Chiesa cattolica, che fa della carità e della misericordia il perno centrale del suo messaggio evangelico, la misura è colma. Il tempo degli stereotipi buonisti, del populismo da strapazzo, del politically correct ipocrita e della demagogia più ripugnante è finito. Basta porgere “cristianamente” l’altra guancia, mentre ci massacrano comodamente a casa nostra. Senza scadere in banali generalizzazioni o facili pregiudizi, questi criminali vanno stanati e sterminati. È imperativo difendere la nostra civiltà con le unghie e con i denti: nessun dialogo è possibile con i tagliagola e con chi spara all’impazzata, falciando cittadini inermi: giovani in una sala di concerto, clienti di un ristorante, tifosi in uno stadio. Stroncando la vita di persone ‘colpevoli’ di vivere secondo le leggi, i costumi, le libertà, gli stili di vita occidentali. Non tutti gli islamici sono terroristi, sia chiaro: la stragrande maggioranza è pacifica e tollerante. Ma tutti i terroristi sono islamici, o almeno si professano tali. Oriana Fallaci ci aveva messo in guardia: “Risvegliate le vostre coscienze, liberate la mente da stereotipi buonisti di uguaglianza”. I musulmani (quelli veri) facciano chiarezza, risolvano i dissidi interni tra Sunniti e Sciiti, prendano le distanze dai fondamentalisti, urlino la loro indignazione e isolino, schiaccino chi usa ideologicamente la religione per trucidare gli “infedeli”. L’Occidente cristiano, dal canto suo, la smetta di tergiversare, si svegli dal torpore e si attrezzi a combattere una guerra lunga e non convenzionale, ma necessaria per garantire la sopravvivenza della sua stessa civiltà. Una civiltà sotto attacco dall’11 settembre del 2001: la carneficina delle Torri Gemelle ha innescato una lunga scia di sangue arrivata fino a Parigi. In mezzo, stragi, attentati e morti: a Londra, Madrid, Copenaghen; ancora a Parigi, a Tolosa, a Lione; ma anche a Bali, Sharm, Il Cairo, Ankara, Tunisi, Beirut, Baghdad; in Nigeria, Somalia, Pakistan, Sudan, Kenya e Yemen. Sì, perché, oltre al fronte cristiano-ebraico, l’Isis è inferocito anche con gli Hezbollah, i miliziani sciiti libanesi che in Siria combattono al fianco di Assad. Una guerra che si frammenta, si atomizza, si frantuma, fino a trasformarsi in guerriglia, grazie alle cellule dormienti ed ai lupi solitari che forniscono ai fondamentalisti un esercito sempre pronto a colpire nel nome di Allah. Tante piccole micro-guerre, impossibili da prevedere e prevenire. Non ci sono due eserciti che si affrontano in campo aperto: basta una sola persona che costruisce un ordigno, supera i controlli di una metropolitana di una qualsiasi città europea e si fa saltare in aria. Serve un salto di qualità nelle strategie militari e di intelligence: 1. Urge un’alleanza duratura con la Russia e la Cina ed un dialogo costante con il mondo islamico lontano dal fondamentalismo; 2. I servizi segreti, anche attraverso la consulenza di esperti di settore e degli stessi giganti della telecomunicazione, devono setacciare i social network, sempre più amplificatori della propaganda terroristica, impedendo lo scambio di comunicazioni virtuali, ma soprattutto individuando i luoghi fisici da cui si collegano i fanatici dell’ISIS per procedere con interventi militari mirati dei reparti scelti. 3. Ma soprattutto bisogna smetterla di far finta di niente contro chi ci terrorizza nelle nostre strade costringendoci a non uscire più di casa, a sentirci impotenti, a chiuderci in un sentimento di paura. Altrimenti hanno già vinto loro. Lo dobbiamo a 2.000 anni di storia, ai sacrifici dei nostri nonni; ma soprattutto lo dobbiamo ai nostri figli, ai nostri nipoti, al futuro della nostra civiltà. Lo dobbiamo alla nostra Cristianità.

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  • Governo Trudeau |Una rivoluzione liberale senza italiani

    Governo Trudeau |
    Una rivoluzione liberale senza italiani

    IL PUNTO di Vittorio Giordano

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    Siamo ancora nella fase (embrionale) degli annunci e delle scelte simboliche, ma Justin Trudeau non ha tradito le attese ed ha già tracciato un solco profondo rispetto al passato recente, tenendo fede a tutte le promesse ‘decantate’ in campagna elettorale. Una vera e propria rivoluzione liberale, che in tanti hanno già ‘glorificato’ con lo slogan avveniristico ‘Trudeaumania 2.0’. Stroncando i pochi ‘non-allineati’, che denunciano, invece, un’overdose di populismo e demagogia. La posta continuerà ad arrivare a domicilio, il Ponte Champlain non sarà a pedaggio, l’esercito non parteciperà più ai bombardamenti in Iraq ed in Afghanistan, il Canada ridurrà le emissioni di gas ad effetto serra, entro il 31 dicembre arriveranno 25 mila rifugiati siriani (di cui 6 mila in Québec). Ma, soprattutto, nel nuovo governo figurano 15 Ministri donne e 15 uomini. “Perché siamo nel 2015”, la giustificazione di Trudeau. Una decisione coraggiosa e significativa. Ma che ci auguriamo non abbia pregiudicato, in alcun modo, la competenza, il talento e l’esperienza. Altrimenti andrebbe rivisitata come forzatura, ‘discriminazione positiva’, parità disuguale o dittatura di genere. Del resto, su 184 deputati liberali eletti in Parlamento, solo 50 sono espressione del ‘gentil sesso’, ovvero il 30%. Forse sarebbe stato più giusto riprodurre la stessa proporzione anche nell’esecutivo. Trovando una sistemazione a ‘pesi massimi’ come Pablo Rodriguez, Anthony Housefather, Andrew Lesley, Bill Blair e lo stesso Nicola Di Iorio, rimasti clamorosamente fuori. Ma non ce la sentiamo di biasimare più di tanto Trudeau, che siamo certi si sia calato nei panni del miglior giocoliere ed equilibrista per trovare la quadratura del cerchio. Alla fine, infatti, ha disegnato un governo ‘diffuso’, composito e multiculturale: sono presenti tutte le Province (con Ontario e Québec sugli scudi), degli autoctoni, 4 sikhs, un ebreo, un musulmano, un geologo, uno scienziato, un astronauta, rifugiati politici e disabili. Oltre ad aver ripescato Stéphane Dion (Esteri) e ‘riesumato’ due Ministri del governo Chrétien, come Goodale (Sicurezza pubblica) e McCallum (Immigrazione). Tutte scelte oculate, ragionate e soppesate. Che paradossalmente, però, hanno escluso proprio gli italo-canadesi, da sempre fervidi e facoltosi sostenitori del Partito Liberale. Tredici, in tutto, i deputati di origine italiana eletti alle ultime elezioni federali: Anthony Rota, Marco Mendicino, Francesco Sorbara, Judy Sgro, Filomena Tassi, Mike Bossio, Nicola Di Iorio, Angelo Iacono, Joe Peschisolido, David Lametti, Francis Scarpaleggia, Bob Bratina e Sherry Romanado. Nessuno di loro ha meritato l’investitura a Ministro. Per carità, una scelta legittima (lo stesso ‘oblio’ è toccato a canadesi di origine cinese, greca e sudamericana). Eppure, lo diciamo sommessamente e senza toni polemici, ci saremmo aspettati un atto di riconoscenza verso una Comunità che, più di altre, ha contribuito, con la sua intraprendenza ed i suoi valori, allo sviluppo sociale, culturale ed economico del Paese.

    Da Carletto Caccia nel 1981 a Julian Fantino nel 2015, rispettivamente il primo e l’ultimo dei Ministri di origine italiana nella storia del Paese (senza trascurare nomi pesanti come Lisa Frulla e Alfonso Gagliano): si interrompe proprio con Justin Trudeau, paladino della rivoluzione liberale, sul piano ideologico e generazionale, il ‘tributo’ tricolore al governo di Ottawa. Un’assenza inaspettata ed immeritata, che ci amareggia e ci ‘derubrica’ a meri spettatori. Almeno in questa fase iniziale. Confidiamo nel primo rimpasto,
    magari a metà legislatura. Anche perché il voto italiano è prezioso e non va mai dato per scontato o preso sottogamba. Così come sarebbe grave se gli italiani, ormai alla 4ª generazione, fossero percepiti come canadesi ‘tout court’ e quindi assimilati. O peggio, se avessero ‘pagato’ il pregiudizio legato agli scandali della Commission Charbonneau.

    In ogni caso, il governo gode della nostra stima, ma lo giudicheremo in base ai fatti. Le nomine, al netto dell’orgoglio etnico, lasciano il tempo che trovano. Gli italo-canadesi, lo sappiamo, si rimboccheranno le maniche per dimostrare ancora una volta di meritare un posto nella ‘cabina di ‘pilotaggio’ di un Paese che hanno contribuito a rendere ricco, potente, rispettato e moderno.

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  • Renzi vuole commissariare l’Italia

    Renzi vuole commissariare l’Italia

    IL PUNTO di Agostino Giordano

    Matteo è bravo nel risolvere i problemi. Commissaria e basta. Senza mai metterci la faccia. A Roma ha prima commissariato il Pd locale, col suo omonimo e presidente nazionale Pd Orfini; e poi ha commissariato il sindaco Marino, prima con il prefetto-badante Gabrielli e poi (tramite Gabrielli) con il commissario straordinario Tronca. Tra omonimi e prefetti, tutto fatto in casa. Certo, Marino ha fatto il possibile per teatralizzare la sua defenestrazione, ma poi la pagliacciata doveva pur finire. E a mettere la parola fine ci ha pensato uno che, in fatto di cognome, non scherza: Tronca. L’ex prefetto di Milano viene catapultato a Roma quasi a ribadire – secondo la vulgata Cantoniana – la supposta superiorità morale di Milano su Roma. Certo, Tronca avrebbe potuto finire meglio il lavoro a Milano, e non con il regalare ai Rom un’ala dell’Expo; e a Roma avrebbe potuto iniziare meglio, e non con il solito tour dall’Altare della Patria alle Fosse Ardeatine. Si spera che a Roma faccia bene, vaccinato com’è dall’esperienza milanese, dove a menare il torrone è un certo Pisapia, un altro figlio di Sel, – Sinistra Ecologia Libertà – confratello di Marino. Uomini sbagliati nel posto sbagliato. Che fanno il paio con altri governatori di sinistra; citiamo, ad esempio, Crocetta (in Sicilia), Vendola (in Puglia), De Luca (in Campania), Zingaretti (in Lazio), Chiamparini (in Piemonte): accusati o inquisiti, indagati o condannati, ma non defenestrati da Renzi. Matteo si guarda bene dal buttarli a mare: sarebbe la sua rovina. Solo il caso Marino, a Roma, ha fatto deragliare il Pd al 17%: altro che 40% vagheggiato da Renzi, nel suo Italicum! Voi mi direte: ma cosa aspetta la magistratura italiana a intervenire, in tutto questo marciume? Una bella domanda, a cui però ho già risposto in decine di articoli, e il cui succo è il seguente: in Italia non c’è certezza di giudizio. Ogni giudice è padrone di interpretare la legge ad libitum. Certo, se gli indagati sono di sinistra, o non si indaga o si insabbia presto; se di segno opposto, le manette tintinnano. Il caso del padre di Renzi Matteo è emblematico: insabbiato. A politici e giornalisti di destra, addosso a tutto spiano; su politici, giornalisti e giornaloni di sinistra, – specie se amici del premier – proibito indagare e  condannare. Adesso i ‘magi-renziani’ ne hanno inventata un’altra: se a commettere delitti sul suolo italico sono migranti che hanno chiesto asilo politico, i loro nomi non vanno  neppure resi noti su stampa e neppure rinviati in patria, perché correrebbero il rischio di venire uccisi. Dunque: se rispedita a casa, questa gentaglia viene uccisa; quindi è meglio che viva da noi, in Italia, – terra del buonismo universale – e rubi e uccida a gogò, coperta da immunità giornalistica e giudiziaria. Ha ragione la Libia a pretendere l’allontanamento delle bagnarole salva-gente italiche dalle sue acque territoriali: ed è scandaloso che lo richiedano ambedue i governi libici, l’un contro l’altro armati. Sì, in Italia, si vive una tragi-commedia toscana, dove un giovinotto ha prima studiato l’homo italicus, poi il sistema giudiziario italiano, quindi il potere quirinalizio, infine l’intricato verminaio politico ex-comunista in salsa bindiana; una volta scoperto il ‘tallone d’Achille’ di questa melassa indigesta, dal paesucolo si è fiondato a Firenze, e da qui a Roma. È una commedia strana, la sua, che ha per attori i soggetti più impensabili, ma tutti finiti a fare le marionette. Di Renzi, premier e segretario del Pd. Partito Democratico. Di nome. In realtà, dopo Roma, Renzi vuole commissariare l’Italia. Servendosi di un Parlamento che ha paura di perdere ‘stipendio’ oggi e ‘posto in lista’ domani. Intanto, però, Berlusconi ha presentato il nuovo programma del centrodestra.

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