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  • Ucraina-Usa: Zelensky incontra Blinken a Kiev

    Ucraina-Usa: Zelensky incontra Blinken a Kiev

    KIEV – Nelle ultime ore, il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, e il Segretario alla Difesa, Lloyd Austin, hanno incontrato il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelenskyy a Kiev. Nelle immagini pubblicate dallo staff di Zelensky al termine dell’incontro nella capitale, lo stesso presidente ucraino ha espresso la sua gratitudine per l’aiuto americano ed ha salutato Biden per il suo “sostegno personale”. Gli Stati Uniti credono che l’Ucraina possa vincere la guerra contro la Russia con “l’equipaggiamento giusto e il giusto supporto”, ha detto ai giornalisti il Segretario alla Difesa Lloyd Austin. La Russia, dal canto suo, al momento non ritiene il cessate il fuoco un’opzione possibile. Intanto, sono state registrate splosioni anche in Transnistria: si teme che Putin non si fermi all’Ucraina, che cerchi di arrivare alla filorussa Transnistria, ufficialmente ancora parte della Moldavia. Due mesi dopo l’inizio della guerra, l’offensiva russa continua a concentrarsi sul Donbass e sul Sud dell’Ucraina, ma il Ministro degli Esteri di Mosca, Sergei Lavrov, avverte: “C’è il rischio reale di una terza guerra mondiale”. Nessuna tregua per la Pasqua ortodossa, malgrado gli appelli arrivati da più parti. E Papa Francesco ha scritto al Patriarca Kirill: “Operiamo per la Pace”.

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  • Massacro di Bucha: la condanna di Usa ed Europa

    Massacro di Bucha: la condanna di Usa ed Europa

    Le immagini delle fosse comuni e delle esecuzioni sommarie nei territori riconquistati dalle forze ucraine intorno a Kiev hanno provocato dure reazioni in tutto il mondo. Se ne parlerà anche al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

    NEW YORK – “La Russia sta compiendo un genocidio per spazzare via l’interna nazione Ucraina”, ha denunciato il presidente Volodomyr Zelensky dopo che il suo Ministro degli Esteri, Dmytro Kuleba, aveva parlato di un “massacro deliberato” compiuto dall’esercito russo a Bucha, località a circa 60 chilometri a nord-ovest di Kiev riconquistata dalle forze ucraine, dove sarebbero state compiute esecuzioni sommarie e sarebbero state trovate fosse comuni. Finora sono stati recuperati 410 corpi. Mosca attribuisce le notizie ad una montatura organizzata da Kiev con foto truccate. Ma dall’Ue arrivano dure condanne. Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e la presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, hanno sottolineato l’esigenza di adottare nuove e più dure sanzioni contro la Russia. Ursula von der Leyen e il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, hanno poi sollecitato un’inchiesta indipendente su quanto accaduto da avviare al più presto. Con l’obiettivo, ampiamente condiviso a Bruxelles, di portare davanti al Tribunale penale internazionale dell’Aja i responsabili di massacri classificabili come crimini di guerra.

    Dura condanna dall’Ue e dagli Usa. Condanne anche da Macron, Scholz e Draghi. Il presidente francese ha detto di essere “favorevole” a nuove sanzioni Ue contro la Russia. “Ci sono indicazioni molto chiare di crimini di guerra” a Bucha, ed è “più o meno stabilito che è stato l’esercito russo” che era presente lì. Il premier italiano ha detto che “la crudeltà dei massacri di civili inermi è spaventosa e insopportabile. Le autorità russe dovranno rendere conto di quanto accaduto”. Papa Francesco, durante la sua visita a Malta, si è nuovamente scagliato contro quella che ha definito una “guerra sacrilega”. Per la Casa Bianca, sono “ulteriori prove di crimini di guerra”: lo ha detto il consigliere per la Sicurezza Nazionale, Jake Sullivan, ricordando come il presidente Joe Biden sia stato “il primo” a parlare di crimini di guerra e per questo era stato anche criticato.

    Embargo gas: non c’è l’accordo. Se è unanime la condanna dell’Occidente alle immagini di Bucha diffuse dal New York Times, non è altrettanto unitaria la posizione sulla riposta da dare alla Russia. Si rilanciano ipotesi di nuove e più incisive sanzioni anche energetiche contro Mosca, che nega la responsabilità di quanto accaduto. “L’Europa deve” staccarsi “dalla fornitura di energia russa, applicando un embargo vincolante”, ha detto la presidente del Parlamento Ue Roberta Metsola. Ma Berlino frena e anche l’Austria si dice contraria a nuove sanzioni sul gas. Il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, dal canto suo, chiarisce: “L’Italia non porrà veti su sanzioni al gas russo”. E anche da Oltreoceano il presidente Usa Joe Biden annuncia che la sua amministrazione sta studiando nuove sanzioni.

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  • A parer mio di Angelo Persichilli. Da Joe Biden a Will Smith: caduta di stile made in USA

    A parer mio di Angelo Persichilli. Da Joe Biden a Will Smith: caduta di stile made in USA

    Dopo la presidenza di Donald Trump si era convinti, o almeno si sperava, che gli imbarazzi per gli Stati Uniti d’America fossero finiti o almeno ridimensionati. Gli eventi degli ultimi giorni invece hanno confermato il contrario e, sotto certi aspetti, anche peggiorati.

    La conferma giunge non solo dal settore politico americano, ma anche da quello dello spettacolo, dal tempio mondiale del mondo della celluloide, da Hollywood e gli Oscar. Cominciamo dal presidente americano. Il patetico discorso di Joe Biden in Polonia è stato un imbarazzo sia per il contenuto, sia per la sua forma. Il responsabile della maggiore potenza militare mondiale parlava degli eventi in Ucraina quasi con le lacrime agli occhi. Questo, a prima vista, non sembra un elemento negativo in quanto mette in risalto la personalità di un individuo emotivo e sensibile. Queste qualità sono comunque positive per la stragrande maggioranza delle persone, ma non per un individuo, appunto il presidente degli Stati Uniti, che ha la responsabilità di gestire situazioni ed eventi importanti e pericolosi, come quello, ad esempio, di premere un bottone per sganciare una bomba atomica. Sono queste qualità pericolose per una persona che non riesce a gestire emozioni, come rabbia e pietà, lasciandosi inoltre sfuggire parole che potrebbero provocare la Terza Guerra Mondiale. Fare paragoni col suo predecessore Trump mi sembra inopportuno in quanto qualcuno potrebbe, sbagliando, interpretarli come una rivalutazione della politica di Donald Trump.

    Ma comunque deve essere detto che la politica dell’ex presidente, in larga parte da non condividere soprattutto nei suoi aspetti più folcloristici, era a volte incosciente ma sempre calcolata e non frutto di emozioni o inesperienza. Quella di Biden è diversa, è emotiva, imprevedibile, quindi pericolosa oltre che imbarazzante. E l’imbarazzo crea perdita di credibilità e ciò è la peggiore cosa che possa succedere a un leader, soprattutto di una superpotenza mondiale. Non ricordo precedenti in cui un presidente francese, tra l’altro nemmeno lui, Macron, un’aquila di intelligenza in politica estera, si era permesso di bacchettare apertamente e duramente un presidente americano. Non era arrivato a tanto nemmeno Charles De Gaulle all’apice della sua arrogante popolarità. Eppure il ‘ragazzino’ Macron ha pubblicamente bacchettato il vecchiardo inquilino della Casa Bianca.

    L’altro imbarazzo è clamorosamente arrivato dal tempo mondiale dello spettacolo, gli Oscar. A parte qualche sagra di paese, non credo di avere assistito a qualcosa di così imbarazzante come l’aggressione fisica di un attore-spettatore al presentatore-cafone della serata. Non sto a riportare i fatti che sono stati visti in diretta televisiva in mondovisione e non credo che ci sia nulla da aggiungere all’imbecillità del presentatore e alla sua battuta di cattivo gusto su una persona malata seduta in prima fila. Quello che stupisce è come il presentatore della più importante serata del mondo dello spettacolo a livello mondiale, appunto gli Oscar, sia potuto scendere così in basso con le sue battute da bettola giù al porto, e come un attore famoso come Will Smith abbia potuto reagire con la stessa ‘classe’ di fronte alle telecamere che stavano trasmettendo al mondo.

    Niente di truculento, sia ben chiaro, come anche le affermazioni di Biden non erano blasfeme: il problema è che Willy Smith ha agito nella notte sacra degli Oscar e le dichiarazioni su Putin, presidente della Russia, non sono state fatte da un Joe qualsiasi, ma da Joe Biden, presidente degli Stati Uniti.

    Perché si tratta di eventi gravissimi? Perché se a parlare così è il presidente degli Stati Uniti e fare a botte è un famoso attore durante la serata degli Oscar, come ci possiamo poi lamentare per quello che fanno i nostri ragazzi?

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  • Twitter non è al di sopra della Libertà

    Twitter non è al di sopra della Libertà

    IL PUNTO di Vittorio Giordano

    La censura è inconciliabile con la Democrazia. C’è il sospetto di un calcolo politico: Trump messo al bando solo alla fine del suo mandato. Eppure, per 4 lunghi anni, il suo linguaggio incendiario è stato ‘tollerato’. Con ricadute convenienti e remunerative per il Big Tech…

    Un’oligarchia digitale, un pugno di miliardari che controlla le più importanti piattaforme di comunicazione sul web, regolarmente quotate in borsa, dall’alto della loro “autorità morale”, si autoproclamano custodi della Verità e della Libertà e decidono unilateralmente di spegnere l’account del Presidente degli Stati Uniti d’America. Imprenditori come Jack Dorsey e Mark Zuckerberg assurgono ad arbitri supremi di cosa sia lecito dire, oppure no, nel dibattito pubblico. Senza possibilità di appello. Come nelle peggiori dittature. Con un clic, i Soloni di Twitter, Facebook, Instagram e Snapchat – ‘benefattori’ che la pandemia ha arricchito ancora di più – si arrogano il diritto di silenziare, censurare e imbavagliare il leader del paese-faro della Democrazia nel mondo. Danneggiando, di riflesso, i suoi 89 milioni di followers, solo su Twitter. E penalizzando gli oltre 74 milioni cittadini americani che lo hanno liberamente rivotato alle ultime elezioni. Da piattaforme di comunicazione senza intermediazioni a strumenti di controllo discrezionali: personaggi controversi come il presidente turco Erdogan e l’ayatollah iraniano Khamenei, infatti, continuano a cinguettare allegramente. Un vero e proprio attacco al principio irriducibile della libertà di manifestazione del pensiero. Un gesto condannato ‘senza se e senza ma’ anche dalla Cancelliera tedesca, Angela Merkel: “È possibile interferire con la libertà di espressione, ma secondo i limiti definiti dal legislatore, e non per decisione di un management aziendale”. Non stiamo parlando della Cina, dell’Iran o della Corea del Nord, dove gli oppositori politici vengono regolarmente perseguiti e perseguitati (per usare un doppio eufemismo), ma del Paese per antonomasia paladino della Libertà, tanto da volerla ostinatamente esportare; Paese fondato su una Costituzione il cui Primo Emendamento – il Primo, non il Secondo – tutela “la libertà di parola e di stampa”. Sia chiaro: una volta accertati i fatti, chi ha fatto irruzione in Parlamento causando la morte di 5 persone merita di essere processato e condannato. Ma dire che Trump abbia instigato all’insurrezione di Capitol Hill (come sostiene Twitter, per giustificare la chiusura dell’account) è una forzatura inaccettabile: il Presidente uscente ha chiesto alla sua gente, accolta poco prima nel giardino della Casa Bianca, di far sentire il proprio disappunto ai Parlamentari riuniti in seduta congiunta a Capitol Hill per certificare la vittoria di Biden alle ultime elezioni. Come succede in tutte le democrazie, con le manifestazioni fuori dai Palazzi del potere. Trump non ha mai chiesto ai suoi di mettere a ferro e fuoco il Campidoglio. Se qualche fanatico ha interpretato male il suo messaggio, è giusto che marcisca in galera. E non regge nemmeno la tesi della recidiva per il linguaggio violento e pericoloso che, oltre a costituire una minaccia per l’ordine pubblico, avrebbe violato il regolamento di aziende private che,  in quanto tali, hanno tutto il diritto di prendere provvedimenti, anche drastici, in piena autonomia. Ma davvero? Se ne sono accorti solo adesso? Dov’è stata l’‘Inquisizione digitale’ negli ultimi 4 anni? Donald Trump usa lo stesso linguaggio triviale, sboccato e incendiario dal primo giorno in cui ha messo piede nella Casa Bianca (20 gennaio 2017). Sono passati in cavalleria migliaia di cinguettii offensivi e talvolta volgari. Come mai i Giganti del web lo hanno silurato solo l’8 gennaio 2021? Francamente, il provvedimento appare tardivo e, quindi, sospetto. Sembra quasi che, per 4 lunghi anni, Twitter e company abbiano chiuso, non uno, ma due occhi sulle regole del gioco, per approfittare – in termini di visibilità e pubblicità – del privilegio di avere il presidente del Paese più potente al mondo usare in maniera rivoluzionaria le piattaforme digitali per alimentare il dibattito pubblico, anche nei rapporti internazionali. Un vantaggio formidabile, oltre che conveniente e redditizio, rispetto ai media tradizionali. Manna dal cielo. È innegabile che Twitter debba gran parte della sua fortuna proprio a questo “cliente” ingombrante, ma autorevole e influente. Salvo poi disfarsene a pochi giorni dalla fine del suo mandato, quando, guarda caso, i suoi tweet non hanno più lo stesso peso planetario. Il sospetto di un calcolo politico, figlio di una scelta ideologica, da parte di chi da sempre sostiene apertamente il Partito Democratico è più che legittima. E poi il paradosso dei paradossi: a togliere il megafono al presidente USA sono gli stessi giganti del digitale che per anni hanno difeso, non solo la totale libertà, ma anche l’assoluta irresponsabilità delle reti sociali per i contenuti diffusi. Fino all’8 gennaio; quando, all’improvviso, i magnati della Silicon Valley si sono riscoperti ‘salvatori della patria’, accollandosi anche la responsabilità sociale di vigilare sui contenuti. Uno spettacolare salto all’indietro con avvitamento carpiato. Vale tutto e il contrario di tutto. Ma chi controlla il controllore? Urge una regolamentazione dal punto di vista etico e giuridico: visto che il Big Tech dispone della nostra “vita e morte digitale”, non è più tollerabile che resti al di sopra della Legge, spesso sfruttando posizioni dominanti e anti-concorrenziali. Serve un’Autorità pubblica di garanzia, a cui appellarsi in caso di blocco, con possibilità di risarcimento e reintegro immediato. Dura Lex, sed Lex. È la Democrazia, bellezza! Perché la Libertà viene prima di tutto. Sempre. Elementare, Watson! 

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  • Il Coronavirus non si ferma: nuove misure in Québec e in Italia, stato di emergenza negli USA

    Il Coronavirus non si ferma: nuove misure in Québec e in Italia, stato di emergenza negli USA

    In Canada oltre 150 casi, 17 in Québec. Il Primo Ministro del Canada Trudeau in quarantena preventiva, dopo che la moglie Sophie Grégoire è risultata positiva al Covid-19. In Italia il virus continua a mietere vittime: 250 solo nelle ultime 24 ore, 1.266 in tutto. Dall’inizio della pandemia, sono 17.660 i casi di contagio nel Belpaese, con 1328 ricoveri in terapia intensiva

    di Giulia Verticchio

    MONTRÉAL – “Misure importanti per forza maggiore”. Il mantra delle istituzioni del Québec, del Canada, dell’Europa, degli Stati Uniti e del mondo intero, ora, è quello di frenare la propagazione del contagio il più possibile per evitare che il numero dei malati superi la capacità di carico dei sistemi sanitari.

    Donald Trump dichiara lo stato di emergenza negli USA. Venerdì pomeriggio, Donald Trump ha dichiarato l’emergenza nazionale negli Stati Uniti, dove cresce di ora in ora l’allarme per la diffusione del coronavirus, con i 1.900 casi superati in tutto il Paese ed almeno 41 morti. La mossa del presidente “apre al finanziamento di 50 miliardi di dollari, che saranno dati agli Stati, territori e località impegnati che nella lotta condivisa alla malattia”. La Casa Bianca ha promesso che saranno disponibili “mezzo milione di test la settimana prossima”, ma ha invitato i cittadini a non correre tutti a fare il tampone. “Gli Usa sconfiggeranno la minaccia del coronavirus — ha promesso —, saremo in grado di garantire più posti letto. Tutti gli ospedali si tengano pronti”.

    L’emergenza coronavirus arriva inesorabile anche a Montréal. La sindaca Valérie Plante alza il livello di intervento e chiude centri comunitari e culturali, biblioteche, piscine, arene e installazioni sportive, tra i quali Planétarium, Jardin Botanique e Centre Claude-Robillard. Diverse le manifestazioni culturali, artistiche, economiche e agonistiche annullate, compresi il Salon national de l’habitation de Montréal, i Campionati mondiali di pattinaggio artistico e le parate di San Patrizio. Obbligo di quarantena di 14 giorni per tutti gli impiegati della funzione pubblica quebecchese e del Comune di Montréal ritornati da un viaggio in qualsiasi destinazione. I viaggi d’affari sono vietati, quelli per ragioni personali fortemente sconsigliati. Il Comune di Montréal esorta le aziende alla flessibilità, favorendo il telelavoro da casa quando possibile e permettendo agli impiegati di evitare le ore di punta in metro per recarsi a lavoro. La STM, l’azienda del trasporto pubblico, aumenta la frequenza di pulizia della metro. È comunque raccomandato agli utenti di lavarsi accuratamente le mani prima e dopo aver usato i trasporti in comune. 

    In Québec sono 17 i casi di COVID19 confermati. Francois Legault, nel suo calmo ma risoluto discorso alla conferenza stampa dell’Assemblea Nazionale, ha fatto “appello alla solidarietà dei Québécois” in queste prossime settimane che “saranno critiche”, in una situazione che “essendo realisti, andrà avanti per mesi”, ma “supereremo questa prova tutti insieme”. Il Primo Ministro invita la popolazione a contattare il numero d’emergenza provinciale 1 877 644-4545 e sovraccaricare meno l’Info-Santé 811. E assicura che non c’è alcun rischio di penuria alimentare in Québec. Intanto le cliniche specializzate stanno per passare da 3 (all’Hotel-Dieu CHUM di Montreal e a Quebec City già aperte, e quella in Montérégie prevista per la prossima settimana) a 15. Il Québec segue l’Ontario nella decisione di chiudere garderie, scuole, cégep e università per 2 settimane. L’iniziativa dei governi provinciali arriva ben più tempestivamente di quella del governo federale che si è fatta attendere in un silenzio difficile da interpretate. Il governo quebecchese ha esortato quello federale a chiudere rapidamente le frontiere canadesi ai viaggiatori provenienti dall’estero, che per tutto questo tempo hanno continuato ad atterrare negli aeroporti del Paese, anche da Cina e Italia, senza alcun controllo sanitario. 

    Sophie Grégoire Trudeau è risultata positiva ai test Covid-19, di ritorno da un viaggio a Londra. Il primo ministro Justin Trudeau, pur non manifestando alcun sintomo, è comunque soggetto ad isolamento, accordandosi a distanza e senza incontri personali con i leader autoctoni e i primi ministri provinciali. La Camera dei Comuni ad Ottawa ha sospeso i lavori parlamentari fino al 20 aprile. Dalle autorità sanitarie arriva semplicemente l’indicazione formale ad evitare i viaggi non essenziali. Il ministro dei trasporti Marc Garneau ha confermato che le navi da crociera non potranno attraccare fino al 1 luglio, ma la stessa azienda di Costa Crociere ha annunciato che sospenderà volontariamente le operazioni delle sue navi sino al 3 aprile.

    In tutto il Canada, sono attualmente 157 i casi di coronavirus confermati positivi, tutti rientrati da viaggi all’estero in paesi a forte allerta contagio. Viene inevitabilmente da pensare che anche questi relativamente “pochi” contagi si sarebbero potuti evitare, se compagnie aeree e aeroporti avessero avuti disposizioni preventive. 

    In Italia sono 17.660 i casi totali, 14.955 gli attuali positivi, 1.328 i ricoverati in terapia intensiva, 1.266 i deceduti e 1.439 i guariti. 250 vittime in un solo giorno. Ecco il numero dei contagiati (totali) nelle singole regioni: Lombardia 9.820 (+1.095 rispetto a giovedì), Emilia-Romagna 2.263 (+316), Veneto 1.595 (211), Piemonte 840 (260), Marche 725 (133), Liguria 345 (71), Campania 220 (41), Toscana 470 (106), Sicilia 130 (15), Lazio 277 (77), Friuli-Venezia Giulia 257 (90), Abruzzo 89 (6), Puglia 129 (25), Umbria 76 (12), Bolzano 125 (21), Calabria 38 (5), Sardegna 43 (4), Valle D’Aosta 28 (1), Trento 163 (56), Molise 17 (1), Basilicata 10 (2). Le grandi città si preparano: a Genova si pensa ad una nave-ospedale. Chiusa la sede della Rai in Puglia per un positivo. A Roma metro e bus chiuderanno la sera dopo le 21. Nel Belpaese il Covid-19 ha una letalità fino a 12 volte maggiore rispetto ad altri Paesi, la più alta del mondo. “A contribuire a questo tragico primato sono l’eterogeneità dei trattamenti in tutto il territorio e la scarsa tracciabilità dei casi positivi asintomatici a cui non viene effettuato il tampone nonostante siano stati a stretto contatto con uno o più pazienti accertati, contribuendo in modo inarrestabile alla crescita del contagio”: questo il monito dell’Associazione mondiale delle malattie infettive e i disordini immunologici (Waidid), presieduta da Susanna Esposito, che lancia un forte appello per combattere la pandemia, anche sulla base dell’esperienza degli esperti cinesi: “Diagnosi precoce, isolamento e trattamento sono i cardini per tenere a bada l’epidemia. Ma la tracciabilità si rivela fondamentale”. 

    L’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiara l’Europa nuovo epicentro della pandemia. Le vittime nel mondo superano la quota 5.000.

    La Spagna, con ormai oltre 4.000 contagi, dichiara lo stato di emergenza per limitare la circolazione delle persone. Francia e Svizzera hanno chiuso scuole e università. Shock nel Regno Unito. Fa discutere la tesi espressa da Sir Patrick Vallance, una delle due massime autorità mediche del governo di Boris Johnson: “Il 60% dei britannici dovrà contrarre il Covid19 per sviluppare l’immunità di gregge”. Boris Johnson ha esplicitamente sostenuto che “Molte famiglie perderanno i loro cari”. Lo scarto tra i contagi recensiti (circa 800) e quelli ipotizzati e presunti (fino a 10 mila) sembra gestita con approssimazione, ma è in realtà una vera e propria scelta del governo quella di non fare fondamentalmente nulla, perché “bloccare il virus è impossibile”, tanto vale che “gli inglesi sviluppino anticorpi”, insistendo che prendere misure “draconiane” non farebbe grande differenza e potrebbe addirittura risultare controproducente.

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  • Ha vinto Trump?È la democrazia, bellezza!

    Ha vinto Trump?
    È la democrazia, bellezza!

    Il Punto di Vittorio Giordano

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    Partiamo da un fatto inconfutabile e incontrovertibile: dopo aver conquistato 306 Grandi Elettori ed essersi aggiudicato 29 Stati, Donald Trump è il 45º presidente degli Stati Uniti d’America. Ad eleggerlo sono stati i cittadini americani che hanno liberamente esercitato il diritto di voto attraverso un sistema elettorale accettato, rispettato e condiviso da tutti. Dura lex, sed lex. Sarà pure antiquato, fuori moda, complicato e ‘distorsivo’, ma è quello vigente e sintetizza le regole del gioco che, in quanto tali, non si possono modificare durante, o peggio, dopo la ‘partita’, per cambiare, o reinterpretare, il risultato sul ‘campo’. Sarebbe troppo comodo e costituirebbe l’anticamera di una deriva autoritaria. Una contraddizione in termini per gli Usa, l’emblema della democrazia occidentale. Quello americano è un sistema elettorale indiretto regolato dall’Art. 2 della Costituzione: ad eleggere l’inquilino della Casa Bianca sono 538 “Grandi Elettori”, ovvero la somma dei senatori e dei deputati (i senatori sono 100, due per ogni Stato, e i deputati sono 435, 1 ogni 475.000 abitanti) scelti dai cittadini alle urne. Va da sé che, gli Stati più popolosi esprimono più “Grandi Elettori” degli altri. Il sistema è quello del “winner-takes-all” (maggioritario secco): basta un voto in più per aggiudicarsi tutti i delegati dello Stato. Funziona così da sempre: dalla ‘Dichiarazione di Indipendenza’ del 1776 alla campagna elettorale del 2016. E qualche volta capita pure che chi si aggiudica le elezioni prende meno preferenze nel voto popolare. Come successo l’8 novembre scorso: 61.039.676 voti per Clinton e 60.371.193 per Trump. Niente di scandaloso o imprevisto: è già successo nel 1824, 1876, 1888, 1960 e, più recentemente, nel 2000, quando Al Gore perse contro George W. Bush nonostante avesse raccolto mezzo milione di voti in più. Sono le regole del gioco, che vanno accettate nella ‘buona e nella cattiva sorte’. Di cosa ci meravigliamo? La verità è che a perdere queste elezioni è stata Hillary Clinton: percepita come espressione dell’establishment e ‘longa manus’ di Wall Street, non ha conquistato la sua stessa gente e non ha sfondato tra le minoranze, soprattutto neri e ispanici. Rispetto a Obama nel 2012, infatti, ha perso oltre 6 milioni di voti, quasi 10, se si considera il trionfo del 2008; mentre Trump ce l’ha fatta con meno voti popolari rispetto a quelli ottenuti quattro anni fa da Romney. Trump può avere tutti i difetti di questo mondo: lo hanno apostrofato come misogino, omofobo, estremista, approssimativo, contaballe, bullo. Ma ha un grande pregio: ha vinto le elezioni. La gente lo ha votato per – o nonostante – il suo audace programma che prevede, tra le altre cose, il muro col Messico e le deportazione degli immigrati irregolari. Idee condivisibili o meno, ma oggi Trump va rispettato semplicemente perché rappresenta l’Istituzione della Presidenza americana. Eppure, soprattutto tra i radical-chic di sinistra e gli attivisti dei centri sociali, è difficile ingoiare la pillola. Fino al punto di screditare – udite udite – il principio del suffragio universale, una conquista di civiltà dopo lotte sanguinose. Analisti e politologi da strapazzo hanno imputato la vittoria di Trump all’ignoranza dei suoi elettori. Si, perché Hillary si è imposta con un largo margine in grandi città della costa come Seattle, San Francisco, Los Angeles, Miami, New York e Chicago, dove vivono i “cittadini di serie A”, gli “eletti”, quelli cioè acculturati, che fanno collezioni di libri e appendono tante lauree al muro; mentre, a scegliere Trump, sono stati i “cittadini di Serie B”, gli “sfigati”, ovvero i proletari bianchi dell’entroterra americano. Un’intellighenzia delirante e infallibile che, dall’alto della sua torre d’avorio, sarebbe addirittura propensa a riservare il diritto di voto solo ai cittadini “illuminati”, istruiti, colti e…. naturalmente democratici di sinistra! Come se il diritto di voto non fosse un diritto naturale inalienabile, che prescinde dal conto in banca, dai titoli di studio o dalla tessera di partito. Come se gli elettori non avessero pari dignità nell’urna, come se i voti non avessero lo stesso peso e valore. A dar man forte agli intellettuali pantofolai sputa-sentenze, sono scesi in piazza anche i giovani, soprattutto universitari e immigrati, che magari non hanno nemmeno votato. Fermo restando che è un loro diritto manifestare, mi sorge un dubbio: non è che vogliono sovvertire il corso democratico di uno Stato di diritto? Preparano, per caso, un colpo di stato? Dove vogliono arrivare con lo slogan “Not my President”? In democrazia vince la maggioranza (spesso silenziosa) e il “resto del mondo” si adegua. Democrazia significa anche saper perdere! Nella democrazia americana si vota per il Presidente ogni 4 anni. Arrivederci al 2020!

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  • Gli Usa e la democrazia fondata sulle armi

    Gli Usa e la democrazia fondata sulle armi

    IL PUNTO di Vittorio Giordano

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    Gli Usa, che storicamente si autoproclamano la ‘patria della democrazia’, tanto da esportarla nel resto del mondo, ergendosi a ‘gendarme buono’ (al netto del disarmo Obamiano degli ultimi anni), si scoprono vittime della propria supposta  superiorità. Traditi proprio da quel modello democratico che, in realtà, sembrerebbe essere tutto tranne che un esempio da emulare. Un modello che sta implodendo sul fronte interno, mostrandosì più che mai debole e vulnerabile. Intendiamoci: l’America resta la prima democrazia moderna con una costituzione scritta, promulgata nel 1789, che sancisce la sovranità popolare come fondamento imprescindibile e stabilisce l’equa suddivisione dei poteri. Un sistema che ha visto il mito americano convincere flotte di immigrati a salpare per il Nuovo Mondo alla ricerca delle “magnifiche sorti e progressive” che, spesso e volentieri, si sono rivelate una realtà tangibile ed effettiva. Il successo della democrazia statunitense, del resto, è da sempre legato all’idea di multiculturalismo: a quella capacità, cioè, tipicamente americana di dare vita ad un melting pot, una società omogenea, in cui i diversi componenti tendono ad armonizzarsi all’interno di un’unica cultura. Diffondere la democrazia, poi, è da sempre nel dna a stelle e strisce, a partire dall’internazionalismo liberale di Thomas Woodrow Wilson, passando per la Guerra fredda di Ronald Reagan, l’interventismo liberale di Bill Clinton e l’unilateralismo di George Bush, fino alla promozione multilaterale dei valori americani di Barack Obama. Un modello collaudato, insomma, che però, negli ultimi tempi, sta lanciando segnali di insofferenza inquietanti. Come se quegli stessi anticorpi che ne hanno preservato l’eccezionalità, ora siano alla base del suo rovinoso cedimento. Gli ultimi eventi di Dallas rischiano di far precipitare l’America nella peggiore crisi razziale degli ultimi decenni. Paradossalmente, proprio nel periodo storico che vede un afroamericano, Barack Obama, alla guida del Paese. Una nemesi spaventosa. Troppo lunga è la lista di afroamericani morti ammazzati senza motivo dai poliziotti: i decessi di Alton Sterling, abbattuto senza ragione, e Philando Castile, ucciso mentre cercava il portafoglio per prendere i documenti di identità, sono solo la punta di un iceberg. I dati sulla disparità nel Paese sono lampanti: l’80% dei fermati per controlli a New York City sono neri o ispanici; e, in media, i neri americani sono condannati a pene più lunghe del 10% rispetto ai bianchi. Ma ciò che indigna ancora di più la comunità afroamericana è l’impunità degli agenti responsabili. Come se ammazzare un nero fosse meno grave, un effetto collaterale tutto sommato accettabile. E quindi da insabbiare. L’America sembra essere ripiombata negli anni ‘50 e ‘60, quando non sono mai stati veramente perseguiti i colpevoli di centinaia di neri ammazzati. Come un’abitudine secolare difficile da estirpare. In un Paese in cui la tensione razziale sta superando i livelli di guardia, ad alimentare la faida tra poliziotti e afroamericani, non può che essere la facilità di accesso alle armi da fuoco, il cui abuso, diffuso e compulsivo, rischia di infiammare una situazione già esplosiva. Secondo l’Iriad-Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo, negli Stati Uniti ogni anno oltre 30.000 persone rimangono uccise dalle armi da fuoco. Inoltre, la media giornaliera è di 30 vittime e la metà di loro sono giovani, di età compresa tra i 18 e i 35 anni; addirittura un terzo sono giovanissimi, di età sotto i 20 anni. Il diritto a possedere armi è peraltro sancito dalla Costituzione: il possesso e il porto di un’arma costituisce un diritto civile protetto dal secondo emendamento. Oggi gli USA sono tra i Paesi la cui popolazione è tra le più armate al mondo: i dati del Congressional Research Service parlano di 357 milioni di armi da fuoco in circolazione, su una popolazione di circa 319 milioni di abitanti. Insomma, per le strade americane è più facile imbattersi in un rivenditore d’armi che in un “bar”. Il rapporto è di 6 a 1. Il caffè di Starbucks con i suoi quasi 11mila negozi perde su tutta la linea contro i 65mila rivenditori, che nel 2015 hanno venduto armi da fuoco. Una realtà cristallizzata: tanto che il Parlamento stesso è ostaggio della potente lobby della ‘National rifle association’ e non riesce a modificare le leggi. Uno stallo percepito dai cittadini, i quali, il giorno successivo a un fatto tragico, puntualmente si armano ancora di più per difendersi meglio. Nella migliore tradizione del “Far West”. È questa la democrazia fondata sulle armi, di cui l’America va tanto fiera e che vuole esportare nel resto del mondo? Francamente, se i presupposti sono i grilletti facili e la polizia che uccide gratuitamente, possiamo anche farne a meno. Per noi, “Il buono, il brutto, il cattivo” era e resta solo un celebre film di Sergio Leone, dalla colonna sonora coinvolgente, arrangiata da Ennio Morricone.

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  • Renzi vola negli Usatra le eccellenze italiane

    Renzi vola negli Usa
    tra le eccellenze italiane

    Il Premier visita lo stabilimento Enel in Nevada: “È la centrale più innovativa al mondo”. Poi annuncia l’internet veloce entro il 2020 e l’Italian  Internet Day il 30 aprile

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    Roma – Una missione americana di quattro giorni “ricchi di eventi sul made in Italy e di summit internazionali” che parte da Stillwater, in Nevada: “Visitiamo la centrale di energie rinnovabili più innovativa del mondo. Che è italiana, anche se spesso il nostro Paese sembra fare tutto per nascondere le proprie eccellenze”. Lo ha scritto il Premier Matteo Renzi sulla sua pagina Facebook presentando la prima tappa del viaggio negli Stati Uniti che è partita martedì 29 marzo e che passa per la centrale ibrida geotermica-fotovoltaica-termodinamica. Mercoledì 30 il presidente vola a Chicago per visitare la scuola italiana e il Fermi Lab, ed alle 15 inaugura il forum ‘Italy and U.S. discussion on the 21st Century Manufacturing Revolution’ presso la University of Chicago Booth School of Business. Giovedì 31 la tappa a Boston dove, in mattinata, visiterà il centro IBM e poi interverrà ad Harvard. Infine, venerdì 1 aprile, si sposterà a Washington per partecipare al ‘Nuclear Security Summit’. “Avete letto bene – ha proseguito Renzi su FB -: la più innovativa del mondo è italiana. Merito di Enel e Enel Green Power. Con il ceo Francesco Starace raccogliamo i frutti di un lavoro lungo anni che ha visto l’azienda italiana diventare una delle principali compagnie del mondo per il geotermico, per il solare fotovoltaico, per il solare termico – tutte realtà presenti in Nevada con una combinazione tecnologica unica – e comunque molto forte anche su eolico e idroelettrico”. Il Premier, sempre a proposito di energie, ha spiegato: “Il futuro dell’energia è innanzitutto la tecnologia: investire sulla ricerca, non aver paura del futuro e della scienza. Cose che Enel fa egregiamente, anche a livello globale. Chi teme la ricerca e l’innovazione è destinato a vivere nella paura. E perdere tutte le sfide del domani”. Poi Renzi ha aggiunto: “Ma dobbiamo avere consapevolezza che un mondo che va avanti solo a rinnovabili per il momento è solo un sogno. Dobbiamo ridurre la dipendenza dai fossili e le emissioni, come abbiamo fatto negli ultimi 25 anni (in Italia -23% di emissioni CO2). Ma il petrolio e gas naturale serviranno ancora a lungo: non sprecare ciò che abbiamo è il primo comandamento per tutti noi”. Per il premier, “Enel è una grande azienda della quale essere orgogliosi. Una grande azienda globale, tra le poche multinazionali che hanno la testa e il cuore in Italia”. Ed ha concluso: “L’Italia e gli italiani sono capaci di cose meravigliose di cui non parliamo mai o quasi. Il Nevada non è propriamente dietro l’angolo. Ma stiamo andando lì perché vogliamo plasticamente mostrare quanto i nostri ingegneri, i nostri operai, i nostri tecnici, i nostri lavoratori, i nostri geologi siano stimati in tutto il mondo”.

    L’Italian Internet Day il 30 aprile e banda ultralarga entro il 2020 – Renzi ha quindi annunciato l’Italian Internet Day per il prossimo 30 aprile. Una giornata di celebrazioni per ricordare il 30 aprile del 1986, giorno in cui il Cnuce (Centro di calcolo elettronico del CNR di Pisa) fu collegato per la prima volta ad Arpanet, le rete di computer che si sarebbe poi evoluta in Internet. Ed ha ricordato che il 7 aprile sarà pubblicato il primo bando dedicato alla banda ultralarga, nell’ambito di un progetto che mira a connettere tutti i cittadini italiani “ad alta velocità” entro il 2020.

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