Tag: Primo Ministro

  • Il potere logora chi ce l’ha

    Il potere logora chi ce l’ha

    IL PUNTO di Vittorio Giordano

    ‘Il potere logora chi non ce l’ha’, amava ripetere Giulio Andreotti, personaggio-simbolo della Democrazia Cristiana e, per antonomasia, della Prima Repubblica italiana. Evidentemente, in Canada, il potere logora anche chi ce l’ha. È il caso del Primo Ministro Justin Trudeau, che, a Ferragosto, nel bel mezzo dell’estate e delle ferie per molti ancora in corso, con la quarta ondata della pandemia ormai alle porte (nonostante i vaccini) ed il mondo alle prese con la rediviva minaccia talebana (e la drammatica crisi umanitaria che sta per abbattersi sull’Afghanistan), ha convinto la neo Governatrice generale di indire le elezioni anticipate per lunedì 20 settembre. (Perchè poi si voti in un giorno lavorativo, piuttosto che di domenica, resta un mistero indecifrabile tutto canadese). Una chiamata alle urne di cui nessuno, tranne Trudeau naturalmente, avvertiva la necessità. La giustificazione avanzata dal leader liberale non convince: dopo 2 anni di gestione della pandemia, «spetta ai Canadesi stabilire come portare a termine la lotta al Covid-19 e come far ripartire il Paese. Hanno il diritto di esprimersi», ha sottolineato il leader liberale. Ci risulta che i Canadesi si siano espressi meno di 2 anni fa – era il 21 ottobre del 2019 – affidando a Trudeau il compito di formare un governo minoritario (potendo contare su 157 seggi, rispetto ai 181 appannaggio dei partiti di opposizione). Il messaggio è stato chiaro: affidiamo la guida del Paese a Trudeau, ma senza carta bianca: sui singoli provvedimenti, preferiamo che si confronti con gli altri partiti. Una scelta legittima, tanto che 4, delle ultime 6 elezioni, hanno partorito governi di minoranza. Un esito che Trudeau, sentendosi un leader dimezzato, non ha mai davvero accettato. Un disagio acuito dalla pandemia, un evento raro e imprevedibile, ma la cui gestione rientra tra le prerogative di qualsiasi governo democraticamente eletto. E così, con il pretesto dell’ostruzionismo delle opposizioni in Parlamento (sebbene ci risulti che il governo abbia legiferato senza troppi intoppi, grazie al sostegno spesso incondizionato dell’NDP), sulle ali della popolarità certificata dai sondaggi e mirando a capitalizzare il massiccio sostegno pubblico fornito ai cittadini (con la PCU) ed alle imprese (con il sussidio agli affitti), Trudeau ha forzato la mano, ed i tempi, per consolidare il suo potere puntando su un governo maggioritario. As simple as that. Naturalmente, il fine giustifica i mezzi. E così, il Canada spenderà 612 milioni di fondi pubblici (100 milioni in più, rispetto all’ultima volta) per mettere in moto la macchina elettorale. Poco importa se, nel frattempo, il deficit per il 2020/21 sia deflagrato a 354 miliardi e se il debito pubblico sia esploso a 1079 miliardi, il 49% del Prodotto Interno Lordo. ‘Quisquilie’, direbbe Totò. Fermo restando il diritto costituzionale di Trudeau di porre fine alla legislatura, resta la sensazione di un voto forzato, sicuramente né essenziale né pertinente, che assume più le sembianze di un referendum sulla sua gestione della pandemia. Trudeau scommette sulla generosità dei suoi programmi di sostegno, per ottenere la giusta ricompensa dai cittadini-beneficiari. Un rischio calcolato, forse rischioso e inopportuno, ma che alla fine dovrebbe premiarlo, anche per la manifesta inferiorità degli avversari politici. I leader dell’opposizione, infatti, continuano ad annaspare: O’Toole è freddo e poco carismatico, Yves-François Blanchet è solido e persuasivo, ma limitato ai confini identitari della Belle Province, mentre Jagmeet Singh fa demagogia con proposte anti-economiche da Repubblica socialista. Alla fine, a spuntarla potrebbe essere proprio chi, logorato dal potere, ha sparigliato le carte per avere ancora più potere: Justin Trudeau.

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  • Scuse sacrosante. E ora tre opere per non dimenticare

    Scuse sacrosante. E ora tre opere per non dimenticare

    IL PUNTO di Vittorio Giordano

    Campo di Petawawa, Ontario

    Giustizia è fatta. Dopo oltre 80 anni di colpevole silenzio, il cerchio si è chiuso e la dolorosa cicatrice dell’internamento può finalmente rimarginarsi. Il Primo Ministro Justin Trudeau ha mantenuto la promessa. E poco importa se ci saranno le elezioni il prossimo autunno. Le speculazioni elettoralistiche non ci riguardano: conta solo il risultato. Dopo l’annuncio del giugno 2019, il leader liberale ha fatto ‘mea culpa’ in Parlamento, a nome del governo, per il trattamento ingiusto e discriminatorio inflitto agli Italo-Canadesi durante la Seconda Guerra Mondiale, quando oltre 600 uomini e donne furono internati ed oltre 31mila finirono sotto la stretta sorveglianza della Gendarmeria Reale del Canada (GRC), in quanto “nemici stranieri”. Senza alcuna prova, senza un preciso capo di accusa, senza un giusto processo, con i beni confiscati e mai più restituiti. Un’intera Comunità, peraltro già integrata nel tessuto sociale ed economico del paese, messa alla berlina, vittima di odiosi pregiudizi, violenze gratuite e razzismo strisciante (con una diffidenza che si è trascinata per decenni), solo perchè di origine italiana. Ed è stato un bene che a cospargersi il capo di cenere sia stato Trudeau, visto che l’artefice di quei provvedimenti incivili è stato un altro Primo Ministro liberale, William Lyon MacKenzie King. È vero che già il Primo Ministro conservatore Brian Mulroney aveva presentato le scuse pubbliche nel 1990, parlando di trattamento “abusivo, ingiusto e illegale”, ma lo aveva fatto in occasione di un evento comunitario, senza il sigillo della cornice istituzionale. Tornando all’attualità, è ancora più significativo il fatto che Trudeau, nell’offrire le scuse, si sia rivolto in italiano (“Signor Presidente”) ad Anthony Rota, primo Italo-Canadese della storia a presiedere la Camera dei Comuni. Non poteva esserci finale migliore. Con buona pace di chi, ancora oggi, anche tra gli agguerriti storici di origine italiana, si ostina ad accusare il governo di lettura semplicistica dei fatti del tempo. La verità è che le autorità canadesi, adottando la ‘War Measures Act’ e sospendendo le libertà civili, hanno agito d’impulso e “sparato” nel mucchio per precauzione, sulla base di sospetti, congetture e supposizioni. Confondendo il patriottismo, l’attaccamento alle proprie origini con il sostegno al regime fascista. E così, temendo fantomatici atti di sabotaggio o di terrorismo, se non addiritttura un’inverosimile ‘Quinta Colonna’, hanno fatto degli Italo-Canadesi dei ‘capri espiatori’. Quando invece i pochi fanatici erano solo vittime ingenue della propria esuberanza (“Non hanno obbedito a nessuna considerazione di filosofia politica”, scrive Mario Duliani in ‘Città senza donne’, 1946). Mentre in tanti si sono arruolati da volontari nell’esercito di Sua Maestà, combattendo valorosamente sul fronte del Pacifico, fino a perdere la vita per difendere i valori della loro patria adottiva. Adesso manca solo l’ultimissimo tassello per completare l’opera: un indennizzo per finanziare progetti comunitari affinché questa pagina oscura della storia canadese costituisca un monito per le generazioni future. Non auspichiamo un risarcimento pari ai 300 milioni di dollari accordati ai 22 mila Canadesi di origine giapponese in occasione delle scuse formali del 1988, anche perché i ‘protagonisti’ sono ormai passati a miglior vita, ma un fondo simbolico per alcuni progetti specifici, così come emerge dalla proposta “Riconoscere, commemorare e insegnare” presentata al governo nel giugno del 2019 da tre Organismi in rappresentanza della Comunità: il Congresso Nazionale degli Italo-Canadesi, la Federazione Nazionale dell’Associazione della gente d’affari e dei professionisti Italo-Canadesi (CIBPA) e l’Ordine dei Figli e delle Figlie d’Italia del Canada. Le tre organizzazioni hanno prospettato al governo tre lodevoli iniziative: l’allestimento di una Mostra commemorativa al Canadian Museum for Human Rights di Winnipeg; la creazione di Museo permanente alla Casa d’Italia di Montréal sulla storia della Comunità Italo-Canadese; e l’attivazione di tre Centri di studio – in altrettante Università: Montréal, Toronto e Vancouver – per l’insegnamento del contributo Italo-Canadese allo sviluppo della società canadese. Tre proposte di buon senso e di stampo educativo: per non dimenticare e per investire in un futuro migliore. Affinché valori come resilienza, tenacia, coraggio, forza di volontà, senso della famiglia e spirito di sacrificio diventino valori imprescindibili e non negoziabili per tutti i Canadesi.

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  • Giustizia, Immigrazione e Lavoro agli Italiani

    Giustizia, Immigrazione e Lavoro agli Italiani

    Il Primo Ministro ha scelto David Lametti, Marco Mendicino e Filomena Tassi

    IL PUNTO di Vittorio Giordano

    ‘Il Buongiorno si vede dal mattino’ e ‘Chi ben comincia è già a metà dell’opera’: sono due proverbi che calzano a pennello per sintetizzare il nostro giudizio sulla composizione del nuovo governo di minoranza guidato da Justin Trudeau. A questi potremmo aggiungerne un altro: “Date a Cesare quel che è di Cesare”. Finalmente, la folta e influente Comunità Italo-Canadese ottiene la giusta considerazione e trova una degna rappresentanza nel nuovo esecutivo liberale, con tre Ministeri strategici come Lavoro, Giustizia e Immigrazione. Tre settori-chiave per il buon funzionamento di uno stato di diritto. Il giusto attestato di stima verso una Comunità che, più di altre, ha contribuito, con la sua intraprendenza ed i suoi valori, allo sviluppo sociale, culturale ed economico del Paese degli Aceri. Senza trascurare la quasi innata ‘vocazione’ Italo-Canadese a votare in blocco per il Partito Liberale. Basti pensare che nei 33 collegi ad alta densità italiana (dove risiedono almeno 10mila Italo-Canadesi), gli eletti Liberali sono passati da 24 a 25. Insomma, la storica fedeltà italiana non ha vacillato, nemmeno dopo 4 anni di deficit galoppante, misure controverse e qualche scandalo di troppo. Trudeau ha voluto premiare chi lo ha sostenuto, nonostante il vento contrario. Facendosi perdonare per la ‘dimenticanza’ del 2015, quando ha varato un governo per la prima volta senza volti Italo-Canadesi: il ‘tributo’ tricolore al governo di Ottawa cominciato nel 1981 con Carletto Caccia, passando per Lisa Frulla e Alfonso Gagliano, si era bruscamente fermato a Julian Fantino nel 2015. Ora manca l’ultimo step per completare l’opera di “riconciliazione”: le scuse agli Italo-Canadesi per l’internamento arbitrario durante la Seconda Guerra Mondiale, come promesso il 14 giugno scorso, a Vaughan. Per saldare un debito con la storia e rimarginare una ferita mai cicatrizzata. Nel frattempo, ci rallegriamo per un governo che parla un po’ più italiano. Prima di tutto, ci sembrava un atto dovuto – e così è stato – confermare alla Giustizia David Lametti, entrato nella stanza dei bottoni del Consiglio dei Ministri nel secondo rimpasto della scorsa legislatura, a soli 9 mesi dal voto: anche nei panni di Procuratore Generale del Canada, Lametti ha avuto il merito di gestire con freddezza ed oculatezza il caso Snc-Lavalin, dopo la burrascosa uscita di scena di Jody Wilson-Raybould. Docente di Diritto all’Università McGill, il deputato Italo-canadese (nato a Port Colborne, in Ontario, da genitori marchigiani) si è lanciato in politica nel 2005, eletto nella contea di LaSalle-Émard-Verdun. Marco Mendicino, dal canto suo, è il nuovo Ministro dell’Immigrazione e della Cittadinanza. Eletto per la prima volta nel 2015 nella contea di Eglinton—Lawrence, in Ontario, Mendicino, 46 anni, originario di Cleto, in provincia di Cosenza, è il secondo calabrese, in ordine di tempo, ad essere investito di questa nomina, dopo Judy Sgrò, che aveva guidato il dicastero tra il 2003 e il 2005. Un pezzo di Calabria che si va ad aggiungere ai deputati eletti nell’ultima tornata elettorale, sempre nel Partito Liberale: oltre a Mendicino, hanno staccato il rinnovo del pass per Ottawa anche Judy Sgrò e Francesco Sorbara. Per Mendicino non sarà una passeggiata: avrà l’ingrato compito di svecchiare e snellire un sistema spesso farraginoso, appesantito da un iter burocratico e da requisiti stringenti che penalizzano gli stessi candidati italiani. Le cifre sono allarmanti: degli oltre 3,6 milioni di stranieri che hanno ottenuto la residenza permanente dal 2006 ai primi otto mesi del 2019, solamente 8.649 sono italiani: lo 0,23% del totale! Ad essere promossa, infine, è stata anche l’Italo-Ontariana Filomena Tassi, che dagli Anziani, dicastero senza portafoglio, è passata al Lavoro, che ha un valore specifico molto più rilevante. Eletta per la prima volta nel 2015 nella contea di Hamilton West-Ancaster—Dundas, Filomena è laureata in Giurisprudenza, oltre a vantare un Master in Educazione Religiosa.

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  • Riconfermato, ma con riserva

    Riconfermato, ma con riserva

    IL PUNTO di Vittorio Giordano

    Il Canada resta liberale, ma questa volta la fiducia accordata al Primo Ministro non è stata totale e incondizionata: gli elettori hanno scelto ancora Trudeau, ma senza la stessa convinzione e compattezza del 2015. Trudeau ha mantenuto il potere, ma la sensazione è che questa volta si sia imposto più per la mancanza di alternative credibili che per meriti personali, acquisiti in quattro anni di governo. Nessuno dei leader è riuscito a convincere gli elettori, conquistando la maggioranza dei seggi necessari (170) per governare senza patemi d’animo fino al 2023: Andrew Scheer (Partito Conservatore) poco carismatico e autorevole,  Jagmeet Singh (NDP) troppo progressista, Elizabeth May (Partito Verde) troppo schiacciata sull’ecologismo militante, Yves-François Blanchet (Bloc Québécois) troppo Quebec-centrico e Maxime Bernier (Partito Popolare) troppo estremista. Alla fine i canadesi si sono affidati al vecchio adagio popolare: ‘Chi lascia la via vecchia per la nuova sa quel che lascia ma non sa quel che trova’. Da qui la scelta di rinnovare la fiducia a Trudueau, ma senza lasciargli campo libero. A limitarlo saranno le opposizioni, con cui Trudeau dovrà negoziare la sua azione di governo. Per un esecutivo ‘sotto tutela’. Una tutela neodemocratica o blocchista, con Singh favorito su Blanchet a fare da stampella all’esecutivo. Grazie ai 156 deputati liberali eletti, infatti, basterebbe aggiungere i 25 Arancioni e magari i 3 Verdi (183 in tutto, 13 in più rispetto ai 170 necessari) per formare un governo di centrosinistra. Una soluzione naturale e logica in teoria, ma difficilmente praticabile, visto che in campagna elettorale, sia la May che Singh non hanno risparmiato critiche feroci a Trudeau, accusato di predicare bene e razzolare male. Il Bloc di Blanchet ed i Liberali, d’altro canto, sono lontani anni luce su temi fondamendali, come la laicità dello stato ed i poteri della Belle Province, sulla dichiarazione dei redditi e sull’immigrazione. C’è poco da fare: a questo punto Trudeau dovrà turarsi il naso e negoziare. La colpa di questa evidente ‘diminutio’ è solo sua: gli elettori lo hanno ‘dimezzato’ per i troppi passi falsi compiuti: sia di immagine, come il viaggio-fiasco in India e lo scandalo del BlackFace, che di sostanza, come l’acquisto del gasdotto, il debito ed il deficit galoppante, la legalizzazione controversa della cannabis, l’intenzione di contestare in Corte Suprema la legge sulla laicità del Québec ed il tentativo di insabbiare le presunte condotte illecite di SNC-Lavalin. Errori di gioventù ed inesperienza, che gli sono costati popolarità e seggi.  Ora governerà con un esecutivo che rischia di diventare un governicchio, indebolito alla nascita dai necessari compromessi al ribasso che dovrà negoziare in Parlamento.

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  • Governo liberale minoritario

    Governo liberale minoritario

    Justin Trudeau è stato riconfermato Primo Ministro: guiderà il Paese per un secondo mandato di fila, ma dovrà scendere a patti con le opposizioni, non potendo contare su una maggioranza relativa in Parlamento

    Liberali sorpresi dal Bloc Québécois di Blanchet, che si aggiudica 32 seggi, 22 in più rispetto a 4 anni fa. Conservatori traditi dall’Ontario, dove conquistano solo 3 seggi in più rispetto al 2015

    Montréal – Il Canada ha scelto: Justin Trudeau resta Primo Ministro, ma guiderà un governo di minoranza. Nelle ultime 6 elezioni, si è già verificato 3 volte: nel 2004 con Paul Martin (PLC), poi nel 2006 e nel 2008 con Stephen Harper (PC). Lunedì 21 ottobre il Partito Liberale si è aggiudicato le elezioni numero 43 della storia federale, ma dovrà scendere a patti con le opposizioni, non essendo riuscito ad accaparrarsi i 170 seggi  necessari per ottenere la maggioranza relativa alla Camera dei Comuni. Un sorriso a metà per Trudeau, che ha vinto, ma non ha stravinto: gli elettori gli hanno rinnovato la fiducia, ma con riserva. La sua azione di governo sarà, per forza maggiore, condizionata dai patti che dovrà stringere verosimilmente con il Partito Neodemocratico ed il Bloc Québécois. Se il partito orange di Jagmeet Singh ha deluso le attese conquistando solo 26 seggi, a sparigliare le carte è stato il partito nazionalista di Yves-François Blanchet, capace di condurre una campagna elettorale magistrale e portare a casa addirittura 32 seggi (+22 rispetto a 4 anni fa).  Oltre 27 milioni di elettori, di cui 6,5 nella provincia del Québec, hanno eletto i deputati in 338 circoscrizioni elettorali. Nella legislatura precedente, i seggi erano così distribuiti: 177 ai Liberali, 95 ai Conservatori, 39 ai Neodemocratici, 10 ai Blocchisti, 2 ai Verdi, 1 ai Popolari, 9 Indipendenti e 5 vacanti. I parlamentari, il cui mandato dura quattro anni, sono stati eletti con il sistema maggioritario secco: ad aggiudicarsi il seggio, infatti, sono stati i candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti in ciascun distretto elettorale. Un sistema che produce spesso una distorsione tra il voto popolare e la distribuzione dei seggi. Tanto che, rispetto ai dati ufficiali aggiornati all’una di notte, i Conservatori vantano il 34,5% del consenso popolare, contro il 33 % del Partito Liberale, il 7,9 % del Bloc Québécois, il 15,9% del Partito Neodemocratico ed il 6,3% del Partito Verde. Se il vero vincitore di questa tornata elettorale è il blocchista Yves-François Blanchet, mattatore incontrastato in Québec, l’unico grande sconfitto è Andrew Scheer, che si è difeso bene nelle Province Atlantiche, salvo poi arretrare in Québec, dove ha conquistato 9 seggi rispetto agli 11 di 4 anni fa, e fare pochi progressi in Ontario, dove si è aggiudicato 37 seggi, solo 4 in più rispetto al 2015. Vano il ‘cappotto’ nelle Province dell’Alberta (33 seggi a zero) e in Saskatchewan (14 a zero), tradizionalmente blu; così come anche la sostanziale tenuta in British Columbia (17 seggi, +7 rispetto al 2015, contro gli 11 Liberali e gli 11 Neodemocratici). Rieletti tutti i leader dei partiti: Andrew Scheer nella contea di Regina—Qu’Appelle, Justin Trudeau a Papineau, Yves-François Blanchet a Beloeil-Chambly ed Elizabeth May a Saanich-Gulf Islands. Non ce l’ha fatta, invece, Maxime Bernier nella circoscrizione di Beauce. Col 96,61% dei voti scrutinati, l’affluenza registrata è stata del 62,7% (contro il 68,3% nel 2015 ed il 61,1% nel 2011).  (V.G.)

    In Québec è tornato il Bloc

    Montréal – Cavalcando l’onda lunga della vittoria di François Legault al governo provinciale, Yves-François Blanchet ha sorpreso tutti, analisti e avversari, facendo risorgere il Bloc Québécois: dopo una campagna elettorale misurata ed efficace, senza mai agitare lo spettro della secessione, il partito nazionalista delle Belle Province ha saputo convincere pure gli indecisi, portando il numero di deputati da 10 a 32. Un’Araba Fenice risorta dalla sue ceneri, dopo che nel 2011 i deputati del Bloc erano stati letteralmente decimati (solo 4). Una vittoria enorme, che fa del Bloc Québécois il vero ago della bilancia del nuovo governo liberale minoritario. Una vittoria che ha penalizzato i Liberali ed i Conservatori, fermi rispettivamente a 35 e 10 deputati eletti. Grande delusione per i Neodemocratici, che hanno portato a casa 1 misero seggio in tutta la Provincia. Montréal si conferma una città liberale con 24 deputati eletti, ma anche qui è arrivata l’onda nazionalista, con ben 14 seggi a favore del Bloc.

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  • Chi sarà il prossimo Primo Ministro?

    Chi sarà il prossimo Primo Ministro?

    Montréal – Ci siamo: ancora pochi giorni di campagna elettorale e poi il Canada avrà un nuovo governo federale. Saranno le elezioni numero 43 della storia federale canadese e serviranno ad eleggere il Primo Ministro numero 24. Oltre 27 milioni (27.243.224) gli elettori, di cui 6,5 nella provincia del Québec, dovranno scegliere i deputati in 338 circoscrizioni elettorali. Oggi i seggi sono così distribuiti: 177 ai Liberali, 95 ai Conservatori, 39 ai Neodemocratici, 10 ai Blocchisti, 2 ai Verdi, 1 ai Popolari, 9 Indipendenti e 5 vacanti. I parlamentari, che resteranno in carica quattro anni, sono eletti con un sistema maggioritario secco: il candidato che ottiene il maggior numero di voti, in ogni distretto elettorale, si aggiudica il seggio. Oltre 2 milioni di elettori hanno già esercitato il loro diritto attraverso il voto ‘anticipato’: una cifra-record, che si riferisce solo alle giornate di venerdì e sabato (non comprende l’affluenza di domenica e lunedì), ma già registra un clamoroso +25% rispetto al 2015. L’ultimo dibattito in francese, moderato dai giornalisti di Radio-Canada, non ha prodotto particolari scossoni: il conservatore Andrew Scheer ed il liberale Justin Trudeau, Primo Ministro uscente, si sono marcati da vicino, difendendosi bene, senza però sferrare l’attacco decisivo. Favorendo, così, il terzo e quarto incomodi: il neodemocratico Jagmeet Singh ed il blocchista Yves-Francois Blanchet. La verde Elizabeth May ha ribadito il suo impegno esclusivo per l’ambiente, mentre il populista Maxime Bernier ha confermato la priorità per il pareggio di bilancio. E gli ultimissimi sondaggi riflettono proprio questa tendenza: Bloc québécois ed NPD stanno risalendo nel gradimento degli elettori, con i Conservatori che adesso appaiono in leggero vantaggio sui Liberali. Come certificano gli ultimi sondaggi realizzati da diversi istituti di rilevazione: per Nanos l’NDP è aumentato al 20%, mentre secondo Mainstream il Bloc è arrivato all’8%. In base ai rilevamenti di Nanos e Mainstream, i Conservatori avrebbero accumulato un leggero vantaggio sui Liberali, che però non certifica ancora un sorpasso sostanziale e definitivo. Sarà un testa a testa, dunque, che già induce molti analisti a pronosticare un governo blu, o rosso, minoritario. E qui entrano in gioco le alleanze, al netto di quello che dichiarano i leader, che appaiono tutti allergici ai compromessi. In base ai precedenti, ai programmi, ma soprattutto alla realpolitik, le opzioni più praticabili sembrerebbero due (anche se non si escludono combinazioni più fantasiose): Liberali e Neodemocratici da una parte (uniti, per esempio, dall’opposizione alla legge 21 in Québec e dall’aumento della spesa pubblica), e Conservatori e Blochisti dall’altra (uniti, dal canto loro, dalla dichiarazione dei redditi unica nella Belle Province e dai maggiori poteri alle singole Province in materia di immigrazione). Del resto, nel recente passato, il governo conservatore minoritario di Harper è nato proprio grazie ai voti del blocchista Duceppe. La storia si ripete. Si ripeterà anche lunedì 21 ottobre? (V.G.)

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  • Caro Trudeau, oltre alla cannabis c’è di più

    Caro Trudeau, oltre alla cannabis c’è di più

    IL PUNTO di Vittorio Giordano

    Pierre Elliott Trudeau, padre dell’attuale Primo Ministro, è stato un politico carismatico ed illuminato: ha governato il Canada per più di 15 anni (1968–1979 / 1980–1984) lasciando un segno indelebile. Il popolo canadese lo ha quasi idolatrato, alimentando un sentimento di euforia passato alla storia come “Trudeaumania”. Trudeau-padre, è passato alla storia per aver abolito la pena di morte, legalizzato il divorzio, depennalizzato l’aborto e l’omosessualità, ufficializzato il bilinguismo di stato (inglese e francese) e “rimpratriato” la Costituzione nel 1982 (che ha sganciato il Canada dalla Monarchia britannica) ispirando l’adozione della storica “Carta canadese dei diritti e delle libertà”. Questo, Trudeau-padre.

    Trudeau-figlio, invece – Justin – rischia di passare alla storia per la legalizzazione della cannabis. Un provvedimento legittimo, che segna la fine del proibizionismo bigotto, intercetta lo spirito di un’epoca e probabilmente anticipa ancora una volta i tempi. Senza contare che gli anni di governo sono solo 3: fra 12 il paragone sarà più completo e attendibile. Ad oggi, però, è lo ‘spinello di Stato’ il provvedimento-caratterizzante del governo Trudeau. Ci auguriamo che non sia l’unico. Anche perché la marijuana resta una droga, leggera ma pur sempre una droga. Il Trudeau-pensiero, comunque, è condivisibile: visto e considerato che i canadesi fumano marijuana, tanto meglio fornirgli l’erba giusta, certificata, nelle dosi opportune, sottraendo alla malavita ingenti fondi, che serviranno a costruire scuole e ospedali. Del resto, succede già con le sigarette e gli alcolici. Le controindicazioni, però, restano allarmanti e irrisolte: a parte la babele dei regolamenti provinciali, comunali e perfino municipali, permangono le incognite sulla sicurezza stradale, sui rischi per la salute, sui controlli negli acquisti on line, sulla possibilità di farsi uno spinello nei condomini in affitto, sulle restrizioni a cui saranno sottosposti i dipendenti pubblici in posti di autorità, come poliziotti, pompieri, medici, insegnanti, giudici, ecc. Senza sottovalutare le contromosse della criminalità organizzata, che –  purtroppo – non batterà in ritirata senza colpo ferire: con le poche succursali aperte, la malavita proverà a reagire con una distribuzione più capillare, costi più abbordabili e soprattutto valori da sballo (THC) più accentuati. Una ‘via di fuga’ anche per gli under 18, banditi dalle boutiques di stato. È non è da sottovalutare neppure l’effetto-curiosità: ora che la cannabis è sdoganata, non saranno pochi quelli che faranno una capatina ingenua in filiale per provare l’ebbrezza dello spinello. Con il rischio che, da semplici avventori, si trasformino in assidui consumatori. Con lo Stato che, in questo caso, diventa complice di una dipendenza da sostanza stupefacente. Capitolo Québec. Legault ha scelto i suoi 26 Ministri (13 donne per la par condicio di genere), optando per un esecutivo tutto sbilanciato sulle periferie: visto che Montréal è rimasta strenuamente liberale, eleggendo solo 2 deputati cachisti, ci auguriamo che la scelta del neo Primo Ministro non sia una ‘rappresaglia’ per punire la metropoli. Si ricordi, Monsieur Legault, che Montréal era, e resta, il motore culturale, commerciale ed industriale della Belle Province. Una provincia che sarà meno bella, se la sua città di punta non verrà messa nelle condizioni migliori per esprimere tutto il suo potenziale. Un potenziale arricchito anche dalle sue varianti etniche. Come quella italiana, a cui il suo governo non ha voluto dare alcuna rappresentanza. Una scelta che ci auguriamo non sia stata dettata, anche questa volta, da ripicche o pregiudizi.

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  • Legault primo ministro

    Legault primo ministro

    Québec – Sette anni dopo il suo ritorno in politica e a conclusione di una maratona elettorale lunga 39 giorni, François Legault è il nuovo Primo Ministro del Québec: guiderà un governo cachista maggioritario. Una vittoria schiacciante che ha colorato di blu tutto il Québec, da Saguenay-Lac-Saint-Jean all’Outaouais, passando per l’Abitibi. Al momento di andare in stampa (le 23:30 di lunedì 1º ottobre), la Coalition avenir Québec (CAQ) de François Legault ha conquistato 74 seggi (ne servivano 63 su 125 per formare la maggioranza) aggiudicandosi il 37.48% dei voti. Una vittoria schiacciante che non ha lasciato scampo agli avversari: 32 seggi al Parti libéral du Québec (PLQ) con il 24.74% dei consensi, 10 seggi a Québec solidaire (QS) col 16.06% e 9  seggi al Parti québécois (PQ) col 17.08%. L’affluenza è stata del 66,6% (6.153.406 i cittadini iscritti nei registri elettorali), in leggera flessione rispetto al 71,43% nel 2014 ed al 74,6% nel 2012.

    CAQ, una vittoria schiacciante nelle regioni : “Fatta la storia”. Il partito di François Legault, che è stato eletto nella contea dell’Assomption, ha costruito la sua vittoria nei piccoli centri urbani e rurali, nelle cosiddette regioni: sulle rive nord e sud di Montréal, nelle regioni di Quebec e Chaudières-Appalaches, così come in Estrie, Mauricie, Abitibi-Témiscamingue e perfino a Outaouais, tradizionalmente roccaforte liberale. La CAQ non è riuscita a sfondare a Montréal, che è rimasta liberale: gli unici due eletti cachisti sono Chantal Rouleau a Pointe-aux-Trembles e Richard Campeau a Bourget. Tra gli eletti-vip della CAQ ricordiamo l’ex procuratore capo della commissione Charbonneau, Sonia Lebel, a Champlain; l’ex Ministro liberale Marguerite Blais a Prévost, l’ex portavoce della polizia da Montréal, Ian Lafrenière, a Vachon, e la tripla medaglia olimpica Isabelle Charest, a Brome-Missisquoi. Senza dimenticare due personaggi-chiave della squadra economica: l’ex vicepresidente della Caisse de dépôt et placement du Québec Christian Dubé, a La Prairie, e l’ex tesoriere della Banca nazionale, Éric Girard, a Groulx. “I quebecchesi hanno scelto la speranza”, ha detto il Primo Ministro in pectore, tra gli applausi scroscianti dei militanti. “Oggi abbiamo fatto la storia – ha aggiunto – : “Avremo un governo efficace ed umano, un governo che ha il cuore nel posto giusto, ma entrambi i piedi per terra”, ha concluso nell’ovazione generale.

    PLQ: Montréal non basta, Couillard in pausa di riflessione. Il PLQ perde più della metà dei seggi e resta essenzialmente confinato nell’isola di Montreal e in alcuni dei suoi sobborghi. Il suo leader, Philippe Couillard, è stato tuttavia rieletto nel collegio di Roberval. Nel suo discorso ai militanti, l’ormai ex Premier si è assunto la responsabilità della sconfitta ed ha annunciato un “periodo di riflessione ”, che sarà “breve” e durerà “un paio di giorni al massimo”. Diversi ex Ministri del governo liberale, tra cui Gaétan Barrette, Dominique Anglade, Sébastien Proulx, Pierre Arcand, Hélène David, André Fortin Carlos Leitao, Christine St-Pierre, Marie Montpetit e Kathleen Weil, sono stati rieletti, ma ora dovranno accomodarsi all’opposizione. Hanno perso, invece: Pierre Moreau, François Blais, Lucie Charlebois, Luc Fortin e Véronyque Tremblay.

    Il PQ perde 2/3 dei seggi: Lisée  di dimette – Il PQ ha perso quasi i due terzi dei suoi parlamentari e, con 9 deputati eletti rispetto ai 10 di Qs, non dovrebbe essere in grado nemmeno di formare un gruppo parlamentare riconosciuto dall’Assemblea nazionale. Il leader Jean-François Lisée è stato sconfitto dall’ex editorialista de La Presse Vincent Marissal, a Rosemont. La sua vice, Véronique Hivon, invece, ce l’ha fatta a Joliette, così come i veterani Sylvain Gaudreault, Pascal Bérubé e Harold Lebel. “Il verdetto di Rosemont – ha dichiarato Lisée –  pone fine al lavoro più formidabile che ho avuto, quello del leader del Parti Quebecois”. “La volontà popolare di scegliere la CAQ al posto dei liberali è stata più forte di qualsiasi altra cosa”. “Finché il Quebec non sarà un paese, il Québec avrà bisogno del Parti Quebecois”, ha concluso. L’ex consigliere di Jacques Parizeau è stato il nono leader del Parti Québécois ed il secondo, dopo Pauline Marois, a perdere il suo seggio alle elezioni.

    Qs fa breccia anche a Québec e a Sherbrooke – Québec Solidaire, che raddoppia la sua rappresentanza nell’Assemblea nazionale con 10 deputati, riesce ad “uscire” da Montréal dove sembrava confinata, grazie alle vittorie di Catherine Dorion a Taschereau e di Sol Zanetti a Jean-Lesage. Christine Labrie ha vinto a Sherbrooke contro il liberale Luc Fortin, mentre Emilise Lessard-Therrien ha coqnuistato Rouyn-Noranda-Témiscamingue. Significative anche le vittorie a Montréal: il presidente del partito, Andrés Fontecilla, è stato eletto a Laurier-Dorion, mentre Alexandre Leduc è riuscito a battere la pechista Carole Poirier a Hochelaga-Maisonneuve. Infine, i co-portavoci del partito, Gabriel Nadeau-Dubois e Manon Massé, sono stati eletti nei loro rispettivi collegi di Gouin e Sainte-Marie-Saint-Jacques.

    Gli “italo-canadesi” eletti:
    Enrico Ciccone (PLQ) a Marquette; Jennifer Maccarone (PLQ) a Westmount-Saint-Louis; Filomena Rotiroti (PLQ) a Jeanne-Mance-Viger; Sol Zanetti (QS) a Jean-Lesage. Non ce l’hanno fatta, invece: Loredana Bacchi (CAQ) a LaFontaine; Mauro Barone (CAQ) a Mille-Îles; Doni Berberi (PQ) a La Peltrie; Beverly Bernardo (indipendnete) a Viau; Agata La Rosa (PLQ) a Rosemont; Alessandra Lubrina (PLQ) a Gouin; Ingrid Marini (PLQ) a Brome-Missisquoi; Sarah Petrari (CAQ) a Jeanne-Mance-Viger; Giuseppe Starnino (partito Libero) a Saint-Jérôme; e Felice Trombino (PCQ) a Soulanges. 

    I vincitori in alcuni quartieri “italiani”: Lise Thériault ad ANJOU-LOUIS-RIEL; Paule Robitaille a BOURASSA-SAUVÉ; Monique Sauvé a FABRE; Marc Tanguay a LAFONTAINE; George Tsantrizos a LAURIER-DORION; Marie Montpetit a MAURICE-RICHARD; Francine Charbonneau a MILLE-ÎLES, Frantz Benjamin a VIAU e Jean Rousselle a VIMONT. (V.G.)

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  • Trudeau tra cannabis e Monsieur/Madame

    Trudeau tra cannabis e Monsieur/Madame

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    di Vittorio Giordano

    Ottawa – Nonostante il deficit di bilancio (il terzo di fila) e il disastroso viaggio in India (con il look giudicato eccentrico ed appariscente dagli stessi indiani), Justin Trudeau tira dritto con il suo programma di governo. E le sue priorità. Incurante degli ultimi sondaggi (su tutti quello Ipsos/Global News), secondo cui i Conservatori avrebbero superato i Liberali nelle intenzioni di voto (38% contro 33%). La luna di miele con gli elettori sembra ormai al capolinea. Un dato sotto gli occhi di tutti, che dovrebbe indurre il Primo Ministro (qualsiasi Primo Ministro) ad una sterzata o, quanto meno, ad un cambio di marcia. Anche perché le elezioni federali non sono poi così lontane: nell’ottobre 2019 la parola tornerà ai canadesi. Che, nonostante la nomèa di persone buone e concilianti, sanno farsi rispettare. Senza guardare in faccia a nessuno. L’impressione, però, è che Trudeau continui a seguire alla lettera la sua agenda. Un’agenda che rispecchia una realtà, la sua, sempre più scollegata da quella del resto del Paese. Lo dimostrano le ultime mosse: Trudeau ha puntato moltissimo sulla legalizzazione della marijuana, un punto-cardine del suo programma elettorale, tanto da annunciarne l’approvazione entro il prossimo 1º luglio (salvo poi ammettere la possibilità di uno slittamento). Il 22 marzo scorso Trudeau ha superato uno scoglio non scontato: l’approvazione in seconda lettura del progetto di legge (in principio) da parte del Senato (44 voti a favore e 29 contrari). Ora il provvedimemento sarà ‘scandagliato’ da 5 Commissioni per poi tornare in aula il 7 giugno, in vista del voto definitivo. Un bel sospiro di sollievo per Trudeau. Ma a quanti davvero interessa? Si tratta di una materia di vitale interesse nazionale? Costituisce una priorità imprescindibile? Cambia la nostra vita quotidiana, al netto dell’effetto-placebo a fine giornata? Aiuterà a vivere meglio i canadesi che sono sempre più indebitati e costretti a pagare le tasse (e qui le pagano tutti!) per finanziare, per esempio, l’assegno di mantenimento dei rifugiati garantendo loro case popolari, indumenti e cure sanitarie? Cosa ne pensano gli stessi dipendenti federali che da anni, ormai, non ricevono la paga nei tempi e nei termini pattuiti per una falla nel sistema di pagamento Phoénix? L’obiettivo è nobile: nazionalizzare un business oggi appannaggio della criminalità. Sempre che questa non abbia già pensato alle contromisure: canne più “forti” ad un prezzo più basso. Un mercato nero parallelo molto competitivo. E sempre che arrivi il‘nulla-osta’ dall’Onu, dopo che negli ultimi decenni il Canada ha firmato ben 3 convenzioni contro la legalizzazione della cannabis. Insomma, il rischio di un buco nell’acqua è molto alto. Ma il provvedimento più controverso (per usare un eufemismo) era arrivato il giorno prima, il 21 marzo: in base ad una circolare, i funzionari di Service Canada, l’agenzia pubblica che assiste i cittadini con servizi come passaporti e sussidio di disoccupazione, non potranno più utilizzare i termini “monsieur” (signore), “madame” (signora), “mère” (madre) e “père” (padre) a beneficio di appellativi neutri e non discriminatori a livello di genere. Incredibile! Siamo arrivati al paradosso che, in ossequio ad una sparuta minoranza (che peraltro non ha mai chiesto nulla), si sacrificano anche le regole linguistiche più logiche e basilari, “violentando” la cultura della stragrande maggioranza. Quale sarà la prossima tappa? Abolire la festa della Mamma e del Papà? Mi dispiace contraddirla, caro Primo Ministro Trudeau: proprio non ci
    riesco a sentirmi in colpa per essere maschio e per avere una mamma e un papà.
    (V.G.)

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  • Il fashion show del Primo Ministro

    Il fashion show del Primo Ministro

    di Angelo Persichilli

    Trudeau-in-India

    Il viaggio di Justin Trudeau in India mi ha ricordato il film comico “National Lampoon’s, European Vacation” con il comico Chevy Chase. Parla di una famiglia di sempliciotti americani in vacanza-premio in Europa. Nel film vi sono tanti spunti per delle generose risate, ma le più sostanziose sono quelle legate alla fissazione del padre di fare vestire tutti i membri della famiglia come, secondo lui, vestivano i residenti locali, durante la loro permanenza a Londra, in Germania, a Parigi e a Roma. Trudeau in India si è comportato come Chevy Chase, con una differenza: l’attore era pagato per far ridere, Trudeau no. Certo, la sua vera professione è quella di professore di arte drammatica (non è una battuta, è vero), ma anche Ronald Reagan era un attore e, una volta alla Casa Bianca, capì quale era la differenza tra un attore e un Presidente degli Stati Uniti. Purtroppo, Justin Trudeau, no. Fare solo dell’ironia sul fashion show in India sarebbe divertente, ma troppo facile e sinceramente imbarazzante. Il suo comportamento ha imbarazzato una intera nazione. Perché? Le spiegazioni sono peggiori della pagliacciata. Alcuni dicono che Trudeau abbia speso centinaia di migliaia di dollari per registrare filmati da usare durante la prossima campagna elettorale; altri dicono che si è trattato di una “trappola” tesa dal governo indiano per smascherare le tendenze filo-Sikh di Ottawa, a favore della secessione del Punjab; è stato detto che la presenza di un ex terrorista nella delegazione ufficiale del governo era stata una svista di un deputato di Vancouver che ha proposto la sua partecipazione; si è anche parlato di un disinteressamento dell’RCMP nell’interpretare le regole di sicurezza per imbarazzare Trudeau. Si tratta di giustificazioni che fanno acqua da tutte le parti. Infatti, non credo che sia stata l’RCMP a ordinargli di vestirsi come i protagonisti di Europea Vacation, o a inserire nella lista uno che aveva dei precedenti penali per terrorismo. Tra l’altro, Trudeau già negli ultimi mesi aveva inanellato una serie imbarazzante di stupidaggini che non giustificano la spiegazione dell’errore isolato. Qualche mese fa aveva ricevuto nel suo ufficio un simpatizzante dei talebani, Joshua Boyle, nonostante i suoi trascorsi, e che è stato poi arrestato in Canada pochi giorni dopo l’incontro con Trudeau. Non è stato il governo indiano ad accostare gli emigrati italiani, greci o musulmani con i terroristi dell’ISIS. Solo qualche settimana fa aveva fatto, come lui stesso ha detto, “una battuta stupida”, per cambiare “mankind” con “humankind” per rispetto alle donne! La verità è più semplice: Trudeau non è un politico, ma un attivista sociale. Niente di male, la sensibilità sociale è necessaria, ma è solo una componente del ruolo di un Primo Ministro. Justin Trudeau non è materiale da Primo Ministro. Tutto qui.

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