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  • Vince la lista INSIEME PER GLI ITALIANI

    Vince la lista INSIEME PER GLI ITALIANI

    MONTRÉAL – È ufficiale: la lista INSIEME PER GLI ITALIANI si è aggiudicata le elezioni per il rinnovo del Comites di Montréal, conquistando la maggioranza relativa dei seggi con 7 eletti su 12: Vera Rosati, Vittorio Giordano, Daniela Fiorentino, Marino De Ciccio, Anna Maria Buondonno e Margherita Maria Morsella. Gli altri 5 posti sono andati alla lista UNITALIA: Renzo Orsi, Paola Miserendino, Luisa Rabach, Santino Quercia e Maria Ciccone. Nella circoscrizione consolare di Montréal, gli iscritti nei registri elettorali sono stati 1.718 su 37.247 iscritti all’Aire, ovvero il 4,61% degli eventi diritto. Alla fine, hanno effettivamente votato in 1.270, ovvero il 3,4% degli elettori potenziali.

    Lo spoglio dei 1.270 voti giunti in Consolato entro il 3 dicembre 2021 si è svolto sabato 4 dicembre dalle 9:30 alle 23, sotto la guida attenta e autorevole dell’avvocato Nicola Di Iorio, ex deputato federale e rinomato docente di Diritto del Lavoro. Lunedì 6 dicembre, alle ore 16, sono arrivati anche il timbro e la firma del presidente del CEC, il Comitato Elettorale Circoscrizionale, presieduto dal Console d’Italia a Montréal, Lorenzo Solinas. In seguito all’elaborazione dei dati attraverso un algoritmo del Ministero degli Esteri basato su un sistema proporzionale secco e sul calcolo dei quozienti, un comunicato ufficiale pubblicato sul sito del Consolato di Montréal ha reso pubblico i nomi degli eletti che formeranno il nuovo Comitato degli Italiani all’Estero. La prima riunione del neo eletto Comites si dovrebbe tenere dopo il 15 dicembre.  La legge elettorale vigente, ricordiamolo, prevede che, nell’ambito del voto per corrispondenza, ogni elettore abbia potuto esprimere fino a 4 preferenze per la stessa lista.

    Elettori iscritti al voto: 1.718      Plichi votati: 1.270     Buste annullate: 111

    Schede bianche: 2      Schede nulle: 72      Voti validi: 1.085

    Cosa sono e cosa fanno i COMITES

    Istituiti nel 1985, i Comites (Comitati degli Italiani all’Estero) sono organismi rappresentativi della collettività italiana, eletti direttamente dai connazionali residenti all’estero in ciascuna circoscrizione consolare ove risiedono almeno tremila connazionali iscritti nell’elenco AIRE. Nel mondo sono presenti 108 Com.It.Es., di cui 50 in Europa, 44 nelle Americhe, 7 in Asia e Oceania, 4 nell’area medio-orientale e 3 in Africa sub-sahariana. Oltre ad esercitare azione di collegamento tra le comunità degli italiani residenti all’estero e le autorità consolari, i Comites contribuiscono ad individuare le esigenze di sviluppo sociale, culturale e civile della comunità di riferimento; promuovono (in collaborazione con l’autorità consolare, con le regioni e con le autonomie locali, nonché con enti, associazioni e comitati operanti nell’ambito della circoscrizione consolare) iniziative sociali e culturali, con particolare riguardo alla partecipazione dei giovani, alle pari opportunità, all’assistenza sociale e scolastica, alla formazione professionale, al settore ricreativo, allo sport e al tempo libero. I Comitati sono altresì chiamati a cooperare con l’Autorità consolare nella tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini italiani residenti nella circoscrizione consolare. I membri dei COMITES restano in carica 5 anni e non percepiscono alcuna remunerazione per la loro attività.

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  • Il potere logora chi ce l’ha

    Il potere logora chi ce l’ha

    IL PUNTO di Vittorio Giordano

    ‘Il potere logora chi non ce l’ha’, amava ripetere Giulio Andreotti, personaggio-simbolo della Democrazia Cristiana e, per antonomasia, della Prima Repubblica italiana. Evidentemente, in Canada, il potere logora anche chi ce l’ha. È il caso del Primo Ministro Justin Trudeau, che, a Ferragosto, nel bel mezzo dell’estate e delle ferie per molti ancora in corso, con la quarta ondata della pandemia ormai alle porte (nonostante i vaccini) ed il mondo alle prese con la rediviva minaccia talebana (e la drammatica crisi umanitaria che sta per abbattersi sull’Afghanistan), ha convinto la neo Governatrice generale di indire le elezioni anticipate per lunedì 20 settembre. (Perchè poi si voti in un giorno lavorativo, piuttosto che di domenica, resta un mistero indecifrabile tutto canadese). Una chiamata alle urne di cui nessuno, tranne Trudeau naturalmente, avvertiva la necessità. La giustificazione avanzata dal leader liberale non convince: dopo 2 anni di gestione della pandemia, «spetta ai Canadesi stabilire come portare a termine la lotta al Covid-19 e come far ripartire il Paese. Hanno il diritto di esprimersi», ha sottolineato il leader liberale. Ci risulta che i Canadesi si siano espressi meno di 2 anni fa – era il 21 ottobre del 2019 – affidando a Trudeau il compito di formare un governo minoritario (potendo contare su 157 seggi, rispetto ai 181 appannaggio dei partiti di opposizione). Il messaggio è stato chiaro: affidiamo la guida del Paese a Trudeau, ma senza carta bianca: sui singoli provvedimenti, preferiamo che si confronti con gli altri partiti. Una scelta legittima, tanto che 4, delle ultime 6 elezioni, hanno partorito governi di minoranza. Un esito che Trudeau, sentendosi un leader dimezzato, non ha mai davvero accettato. Un disagio acuito dalla pandemia, un evento raro e imprevedibile, ma la cui gestione rientra tra le prerogative di qualsiasi governo democraticamente eletto. E così, con il pretesto dell’ostruzionismo delle opposizioni in Parlamento (sebbene ci risulti che il governo abbia legiferato senza troppi intoppi, grazie al sostegno spesso incondizionato dell’NDP), sulle ali della popolarità certificata dai sondaggi e mirando a capitalizzare il massiccio sostegno pubblico fornito ai cittadini (con la PCU) ed alle imprese (con il sussidio agli affitti), Trudeau ha forzato la mano, ed i tempi, per consolidare il suo potere puntando su un governo maggioritario. As simple as that. Naturalmente, il fine giustifica i mezzi. E così, il Canada spenderà 612 milioni di fondi pubblici (100 milioni in più, rispetto all’ultima volta) per mettere in moto la macchina elettorale. Poco importa se, nel frattempo, il deficit per il 2020/21 sia deflagrato a 354 miliardi e se il debito pubblico sia esploso a 1079 miliardi, il 49% del Prodotto Interno Lordo. ‘Quisquilie’, direbbe Totò. Fermo restando il diritto costituzionale di Trudeau di porre fine alla legislatura, resta la sensazione di un voto forzato, sicuramente né essenziale né pertinente, che assume più le sembianze di un referendum sulla sua gestione della pandemia. Trudeau scommette sulla generosità dei suoi programmi di sostegno, per ottenere la giusta ricompensa dai cittadini-beneficiari. Un rischio calcolato, forse rischioso e inopportuno, ma che alla fine dovrebbe premiarlo, anche per la manifesta inferiorità degli avversari politici. I leader dell’opposizione, infatti, continuano ad annaspare: O’Toole è freddo e poco carismatico, Yves-François Blanchet è solido e persuasivo, ma limitato ai confini identitari della Belle Province, mentre Jagmeet Singh fa demagogia con proposte anti-economiche da Repubblica socialista. Alla fine, a spuntarla potrebbe essere proprio chi, logorato dal potere, ha sparigliato le carte per avere ancora più potere: Justin Trudeau.

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  • Governo liberale minoritario

    Governo liberale minoritario

    Justin Trudeau è stato riconfermato Primo Ministro: guiderà il Paese per un secondo mandato di fila, ma dovrà scendere a patti con le opposizioni, non potendo contare su una maggioranza relativa in Parlamento

    Liberali sorpresi dal Bloc Québécois di Blanchet, che si aggiudica 32 seggi, 22 in più rispetto a 4 anni fa. Conservatori traditi dall’Ontario, dove conquistano solo 3 seggi in più rispetto al 2015

    Montréal – Il Canada ha scelto: Justin Trudeau resta Primo Ministro, ma guiderà un governo di minoranza. Nelle ultime 6 elezioni, si è già verificato 3 volte: nel 2004 con Paul Martin (PLC), poi nel 2006 e nel 2008 con Stephen Harper (PC). Lunedì 21 ottobre il Partito Liberale si è aggiudicato le elezioni numero 43 della storia federale, ma dovrà scendere a patti con le opposizioni, non essendo riuscito ad accaparrarsi i 170 seggi  necessari per ottenere la maggioranza relativa alla Camera dei Comuni. Un sorriso a metà per Trudeau, che ha vinto, ma non ha stravinto: gli elettori gli hanno rinnovato la fiducia, ma con riserva. La sua azione di governo sarà, per forza maggiore, condizionata dai patti che dovrà stringere verosimilmente con il Partito Neodemocratico ed il Bloc Québécois. Se il partito orange di Jagmeet Singh ha deluso le attese conquistando solo 26 seggi, a sparigliare le carte è stato il partito nazionalista di Yves-François Blanchet, capace di condurre una campagna elettorale magistrale e portare a casa addirittura 32 seggi (+22 rispetto a 4 anni fa).  Oltre 27 milioni di elettori, di cui 6,5 nella provincia del Québec, hanno eletto i deputati in 338 circoscrizioni elettorali. Nella legislatura precedente, i seggi erano così distribuiti: 177 ai Liberali, 95 ai Conservatori, 39 ai Neodemocratici, 10 ai Blocchisti, 2 ai Verdi, 1 ai Popolari, 9 Indipendenti e 5 vacanti. I parlamentari, il cui mandato dura quattro anni, sono stati eletti con il sistema maggioritario secco: ad aggiudicarsi il seggio, infatti, sono stati i candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti in ciascun distretto elettorale. Un sistema che produce spesso una distorsione tra il voto popolare e la distribuzione dei seggi. Tanto che, rispetto ai dati ufficiali aggiornati all’una di notte, i Conservatori vantano il 34,5% del consenso popolare, contro il 33 % del Partito Liberale, il 7,9 % del Bloc Québécois, il 15,9% del Partito Neodemocratico ed il 6,3% del Partito Verde. Se il vero vincitore di questa tornata elettorale è il blocchista Yves-François Blanchet, mattatore incontrastato in Québec, l’unico grande sconfitto è Andrew Scheer, che si è difeso bene nelle Province Atlantiche, salvo poi arretrare in Québec, dove ha conquistato 9 seggi rispetto agli 11 di 4 anni fa, e fare pochi progressi in Ontario, dove si è aggiudicato 37 seggi, solo 4 in più rispetto al 2015. Vano il ‘cappotto’ nelle Province dell’Alberta (33 seggi a zero) e in Saskatchewan (14 a zero), tradizionalmente blu; così come anche la sostanziale tenuta in British Columbia (17 seggi, +7 rispetto al 2015, contro gli 11 Liberali e gli 11 Neodemocratici). Rieletti tutti i leader dei partiti: Andrew Scheer nella contea di Regina—Qu’Appelle, Justin Trudeau a Papineau, Yves-François Blanchet a Beloeil-Chambly ed Elizabeth May a Saanich-Gulf Islands. Non ce l’ha fatta, invece, Maxime Bernier nella circoscrizione di Beauce. Col 96,61% dei voti scrutinati, l’affluenza registrata è stata del 62,7% (contro il 68,3% nel 2015 ed il 61,1% nel 2011).  (V.G.)

    In Québec è tornato il Bloc

    Montréal – Cavalcando l’onda lunga della vittoria di François Legault al governo provinciale, Yves-François Blanchet ha sorpreso tutti, analisti e avversari, facendo risorgere il Bloc Québécois: dopo una campagna elettorale misurata ed efficace, senza mai agitare lo spettro della secessione, il partito nazionalista delle Belle Province ha saputo convincere pure gli indecisi, portando il numero di deputati da 10 a 32. Un’Araba Fenice risorta dalla sue ceneri, dopo che nel 2011 i deputati del Bloc erano stati letteralmente decimati (solo 4). Una vittoria enorme, che fa del Bloc Québécois il vero ago della bilancia del nuovo governo liberale minoritario. Una vittoria che ha penalizzato i Liberali ed i Conservatori, fermi rispettivamente a 35 e 10 deputati eletti. Grande delusione per i Neodemocratici, che hanno portato a casa 1 misero seggio in tutta la Provincia. Montréal si conferma una città liberale con 24 deputati eletti, ma anche qui è arrivata l’onda nazionalista, con ben 14 seggi a favore del Bloc.

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  • Sfida all’ultimo voto tra Legault e Couillard

    Sfida all’ultimo voto tra Legault e Couillard

    Québec – Dopo l’ultimo dibattito televisivo andato in onda su LCN, i leader dei principali partiti in lizza per la guida della Provincia si preparano al rush finale per conquistare il voto degli indecisi e aggiudicarsi le elezioni. La sfida è tra François Legault (CAQ) e Philippe Couillard (PLQ), con Jean-François Lisée (PQ) e Manon Massé (QS) che possono diventare l’ago della bilancia per un eventuale governo ‘maggioritario’, o ‘minoritario’. Rispetto al vantaggio di 5 punti percentuali che Legault vantava fino a qualche settimana fa, tutti i sondaggi resi pubblici la settimana scorsa (Mainstreet/Capitales Médias, Léger/Le Devoir/The Gazette, CROP/Cogeco e Leger/LCN) concordano nel certificare una lotta serrata tra CAQ e PLQ. Secondo il magazine di approfondimento ‘L’Actualité’, che ha fatto una media di tutti i risultati ottenuti da diversi istituti di statistica, se si andasse a votare oggi, il 30.5% sceglierebbe il Parti libéral du Québec (PLQ), il 30.2% la Coalition avenir Québec (CAQ), il 21% il Parti québécois (PQ) ed il 14.7% Québec solidaire (QS). Questo il voto popolare. Fatale per Legault (nonostante la mezza marcia indietro) l’immigrazione ed il suo test di valori e lingua francese, che comporterebbe l’espulsione dopo 3 anni in caso di fallimento. In termini di seggi, invece, combinando il vantaggio cachista tra i francofoni e nei piccoli centri della Provincia con il sistema elettorale maggioritario, la CAQ conseguirebbe 53.5 seggi, il PLQ il 45.8, il PQ il 19.1 e QS 6.6. E visto che per la maggioranza all’Assemblea Nazionale bisogna conquistare 63 seggi, l’eventuale governo cachista sarebbe un esecutivo di minoranza. Un ‘governicchio’ che, schiacciato dalla necessità della politica dei compromessi (al ribasso), potrebbe anche non durare tutta la legislatura. E a rimetterci sarebbero, come al solito, i cittadini quebecchesi.

    Il voto quebecchese in sintesi:

    Lunedì 1º ottobre, dalle 9.30 alle 20, si svolgeranno le elezioni legislative n. 42 della storia del Québec per eleggere 125 deputati che occuperanno i 125 seggi dell’Assemblea Nazionale (che corrispondono alle 125 circoscrizioni o contee elettorali).

    Le elezioni provinciali sono disciplinate da un sistema elettorale maggioritario basato su un collegio uninominale a un turno (uninominale secco). Denominato first-past-the-post (“il primo prende tutto”), prevede la vittoria del candidato che riporta il maggior numero di voti. In ogni collegio, cioè, viene eletto chi riceve più voti, mentre tutti gli altri, anche se ricevono percentuali di voto importanti, vengono esclusi. È il sistema in vigore nel Regno Unito e nella stragrande maggioranza dei Paesi anglosassoni.

    Sono 22 i partiti riconosciuti da “Élections Québec” per un totale di 940 candidati, di cui 375 donne, ovvero il 40%.

    Gli slogan dei principali partiti: “Pour faciliter la vie des Québécois” (PLQ), “Sérieusement” (PQ), “Maintenant.” e “Populaires” (QS).

    Sono 6.153.406 i cittadini quebecchesi iscritti nei registri elettorali. Alle precedenti elezioni, il 7 aprile del 2014, l’affluenza è stata del 71,4% : hanno votato 4 295 055 su 6 012 440 aventi diritto.

    Alle elezioni del 7 aprile del 2014, il PLQ ha tenuto il 41,52% dei voti (1 757 071) per un totale di 70 seggi; il PQ il 25,83% (1 074 120) per 30 seggi; la CAQ il 23,05% (975 607) per 22 seggi e QS il 7,63% (323 124) per 3 seggi.

    I candidati italo-canadesi in corsa: Loredana Bacchi (CAQ),LaFontaine; Mauro Barone (CAQ) Mille-Îles; Doni Berberi (PQ) La Peltrie; Beverly Bernardo (indipendnete) Viau; Giuseppe Cammarrota (Verdi), Nelligan; Dwayne Cappelletti (Partito Libero), Mille-Îles; Enrico Ciccone (PLQ), Marquette; Michael-Louis Coppa  (PCQ), Robert-Baldwin; Andrés Fontecilla (QS), Laurier-Dorion;  Antonino Geraci (Verdi), Sanguinet; Agata La Rosa (PLQ), Rosemont; Alexandra Liendo (PCQ), Rosemont; Alessandra Lubrina (PLQ), Gouin; Jennifer Maccarone (PLQ), Westmount-Saint-Louis; Ingrid Marini (PLQ), Brome-Missisquoi; Richard Merlini  (PLQ), La Prairie; Liana Minato (Parti 51), La Prairie; Sarah Petrari (CAQ), Jeanne-Mance-Viger; Saul Polo (PLQ), Laval-des-Rapides; Sandra Mara Riedo (Verdi),La Peltrie; Filomena Rotiroti (PLQ), Jeanne-Mance-Viger; Giuseppe Starnino (partito Libero), Saint-Jérôme; Felice Trombino, (PCQ), Soulanges; Patricia Vaca (Cambiamento), Mirabel; Claire Vignola  (PQ), Lesage; Jean-François Vignola (PCQ), Johnson; Paul-Émile Vignola (PCQ), Matane-Matapédia, Sol Zanetti (QS)m, Jean-Lesage.

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  • Couillard si difende, Legault non convince, brilla Lisée

    Couillard si difende, Legault non convince, brilla Lisée

    QUÉBEC AL VOTO Lunedì 1º ottobre

    Montréal – Tra i due litiganti, il terzo gode. Il vecchio adagio calza a pennello per descrivere la situazione politica provinciale, all’indomani del primo dibattito-tv (andato in onda su Radio-Canada, il prossimo sarà di scena giovedì 20 settembre su LNC, dopo il confronto in inglese di lunedì su CBC, Global e CTV News) che ha visto Philippe Couillard (PLQ) e François Legault (CAQ) in affanno e sotto attacco (il primo perché Primo Ministro, il secondo perché ‘battistrada’ nei sondaggi), sopraffatti da un Jean-François Lisée (PQ) tonico e rassicurante (al netto del referendum sull’indipendenza per un eventuale secondo mandato), con la stessa Manon Massé (Québec solidaire) in grado di reggere il confronto con uno spirito battagliero e autentico, salvo poi perdersi in promesse da ‘Paese dei Balocchi’ (come la gratuità scolastica fino all’Università). Legault parte bene, mettendo Couillard con le spalle al muro su un tema sensibile e spinoso come la sanità: “Il 59% dei quebecchesi –attacca – non riesce a farsi visitare dal medico di famiglia il giorno stesso, o l’indomani”. Poi il primo autogol: “Ridurrò i tempi di attesa al Pronto soccorso a massimo 90 minuti”. Cioè l’85% in meno rispetto alla media attuale. Senza spiegare, peraltro, con quali coperture finanziarie. Inoltre, pur concedendo più “potere” (di prescrizione) a farmacisti e infermieri, la missione nasce già perdente in partenza: ci vogliono anni per cambiare un sistema sanitario “malato”. D’altro canto, la ricetta del Ministro liberale Gaétan Barrette sulle supercliniche non ha convinto. Per non parlare degli aumenti di stipendio a vantaggio dei medici specialisti, giudicati come un “affronto” dai pazienti, spesso abbandonati al loro destino. Controproducenti, anche se realistici, i continui paragoni di Legault al modello dell’Ontario: “I nostri medici guadagnano il 40% in meno”. Ergendosi a paladino del capitalismo (come se i soldi fossero la soluzione di tutti i problemi). E qui la prima stoccata di Lisée: “Non è il Primo Ministro Doug Ford a decidere le politiche del Québec”. Un pizzico demagogico e populista (il Québec è pur sempre una Provincia di uno stato federale), ma utile a rinfocolare l’orgoglio quebecchese. E poi l’attacco a Couillard: “Abbandonando i più vulnerabili, il governo non ha mai mostrato la minima compassione per la sua gente”.  Ancora Legault sull’istruzione: “Tutti i bambini di 4 anni negli asili nido (classes de maternelle) o nei Centri di Piccola Infanzia (CPE)”. Ma Couillard gli ricorda che aprire gli asili anche ai bambini di 4 anni comporterebbe  costi insostenibili. I toni salgono quando il dibattito si sposta sul tema dell’immigrazione/identità nationale: Legault è apparso nervoso e approssimativo, quando gli interlocutori lo hanno attaccato sul test dei valori e sull’esame di francese: in caso di fallimento, dopo 3 anni c’è l’espulsione. “Fai paura alla gente”, lo aggredisce Couillard. Ma Legault tuona: “Smettila di darci lezioni”. Chiedendogli, invano, di scusarsi dopo che un suo candidato, Mohammed Barhone, ha accusato la CAQ di voler fare una “pulizia dell’immigrazione”. Anche Manon Massè ha il suo momento di gloria quando il dibattito si sposta sul salario minimo: “In che mondo vivete? – incalza i suoi avversari – : oggi un milione di quebecchesi vive col salario minimo: domani mattina, non fra chissà quanti anni, bisogna passare da 12 a 15 $ all’ora!”. (V.G.)

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  • Alderisi, Nissoli e La Marca: è trionfo rosa

    Alderisi, Nissoli e La Marca: è trionfo rosa

    Il Pd resta primo partito in Europa e Asia-Africa-Oceania; superato, però, dal Centrodestra, in Nord e Centro America, di quasi 4 punti percentuali. All’estero non si ripete l’exploit che il M5S ha registrato in Italia. Intanto nella nostra ripartizione vincono 3 donne: alla Camera riconfermate Fucsia Nissoli e Francesca La Marca, mentre al Senato è in testa Francesca Alderisi

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    ROMA – Mentre in Italia il Partito Democratico raccoglie i cocci della disfatta elettorale, dall’estero arrivano dati in controtendenza. Sia alla Camera che al Senato, infatti, i connazionali delle quattro Ripartizioni in cui è divisa la Circoscrizione Estero hanno votato in maggioranza per il Pd. Con 1.520 su 1.858 seggi esteri scrutinati per la Camera, infatti, il Pd si attesta al 26,58%; la coalizione di Centrodestra (FI, Lega, Fratelli d’Italia) al 21,86; il M5S al 17,49; il Maie al 9,69%; l’Usei al 5,95%; Liberi e Uguali al 5,66; e +Europa al 5,58, ecc. Un risultato globale, questo, che rispecchia in particolare il voto in Europa e Africa-Asia-Oceania; mentre in Nord e Centro America è la coalizione di Centrodestra a superare il Pd con il 33,11% delle preferenze; e in America Meridionale, Maie e Usei sbaragliano la concorrenza rispettivamente con il 28,65% ed il 19,22% delle prederenze. La situazione al Senato, a scrutini ancora in corso, è sostanzialmente la stessa.

    Le Ripartizioni estere, dunque, tradizionalmente più conservatrici di quelle nazionali, hanno attenuato il successo dei 5 Stelle che, secondo gli ultimi dati riportati sul sito del Ministero dell’Interno (ore 19 di lunedì 5 marzo), al di fuori dei confini nazionali rappresentano la terza forza politica. Per quanto riguarda l’affluenza, all’estero è stata del 28,20%, con una punta massima oltre il 30% in Sud America.

    In Nord e Centro America, che è la ripartizione che ci riguarda più da vicino, ha prevalso il Centrodestra con il 33,11% dei voti alla Camera (152 sezioni su 159) e il 34.06% al Senato (158 su 159), seguito a ruota dal Pd (29,27% alla Camera e 29,17% al Senato), il Movimento Cinque Stelle (17,62% e 17,66%) e il MAIE (7,69% e 7,93%%). Male Liberi e Uguali: 4,24% alla Camera e 4,35% al Senato. Per l’ufficializzazione degli eletti bisogna pazientare ancora qualche ora, ma la tendenza sembra ormai consolidata: quando mancano ancora pochi seggi da scrutinare, alla Camera (152 su 159) dovrebbero essere elette Fucsia Angela Fitzgerald Nissoli (Centrodestra-Forza Italia, 6.534 preferenze) e Francesca La Marca (PD, 8.368 voti). Tra i candidati che non dovrebbero avercela fatta, ricordiamo: Vincenzo Arcobelli (con 4.968 preferenze), Matteo Gazzini (4.956) e Basilio Giordano (4.373), per il centrodestra; Giovanni Faleg (3.654) e Rocco Di Trolio (2.950) per il centrosinistra; Giovanna Giordano (1.947) e Salvatore Ferrigno (1.190) per il MAIE; Giuseppe Continiello (999) e Pierluigi Roi (799) per Liberi e Uguali. Il seggio del Senato (158 su 159), invece, dovrebbe andare a Francesca Alderisi (Centrodestra-Forza Italia, 10.994), che avrebbe avuto la meglio, tra gli altri, su: Mario Cortellucci (5.370), sempre del centrodestra; Angela Maria Pirozzi in Giannetti (6.743) e Pasquale Nesticò (4.781) del Partito Democratico; Augusto Sorriso (3.123) e Paolo Canciani (1.697) del MAIE, e Tony d’Aversa (1.282) di Liberi e Uguali. Nel complesso, quindi, sarebbero stati eletti due parlamentari di Forza Italia e una del Partito Democratico. Sulla prossima edizione vi daremo conto tutti i dati definitivi e ufficiali (compreso il numero effettivo di votanti), con un occhio di riguardo per i risultati che riguardano i candidati in Canada e, in particolare, dell’area consolare di Montréal. (V.G.)

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  • Volano Lega e 5 Stelle. Ma non c’è la maggioranza

    Volano Lega e 5 Stelle. Ma non c’è la maggioranza

    Il Movimento guidato da Luigi Di Maio primo partito, il Carroccio sorpassa Forza Italia,  ma nessuno schieramento ottiene la maggioranza. Il Pd precipita sotto il 20%. Leu non arriva al 4%. Nelle Regionali in Lombardia avanti Attilio Fontana (centrodestra), nel Lazio in testa Nicola Zingaretti (centrosinistra)

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    ROMA – Il 4 marzo 2018 resterà scolpito nella storia della Repubblica Italiana per la grande vittoria del Movimento Cinque Stelle e per la Lega, partito leader del centrodestra, coalizione con il maggior numero di voti. Il messaggio degli elettori è chiaro, ma difficilissimo (a oggi) vedere una maggioranza, che non c’è. Nessuna forza politica, né da sola né in coalizione, ha dunque la maggioranza  parlamentare e, quindi, l’autosufficienza per poter governare. A meno che non vi siano “innesti” esterni. Guardando i numeri, le alleanze possibili sono tra M5S-Pd o tra le due forze antisistema M5S-Lega, ma entrambi gli scenari appaiono politicamente difficili da concretizzare.

    I VOTI ALLA CAMERA E AL SENATO. Quando sono 61.374 su 61.401 le sezioni scrutinate e si è in attesa dell’attribuzione dei seggi, questi sono i dati, secondo il sito del Ministero dell’Interno, per la Camera dei deputati: Lega 17,37%, Forza Italia 14,01%, Fratelli d’Italia con Giorgia Meloni 4,35%, Noi con l’Italia-Udc 1,30%, Movimento 5 stelle 32,68%, Partito democratico 18,72%, +Europa 2,55%, Italia Europa insieme 0,60%, Civica Popolare Lorenzin 0,54%, Svp-Patt 0,41%, Liberi e uguali 3,38%, Potere al popolo 1,13%, Casapound Italia 0,94%. Al Senato, quando sono 61.381 su 61.401 le sezioni scrutinate, la Lega è al 17,62, Forza Italia 14,42%, Fratelli d’Italia 4,26%, Noi con l’Italia-Udc 1,29%, Movimento 5 Stelle 32,22%, Partito democratico 19,12%, +Europa 2,36%, Italia Europa Insieme 0,54%, Civica Popolare Lorenzin 0,52%, Svp-Patt 0,42%, Liberi e Uguali 3,27%, Potere al Popolo 1,05%, Casapound Italia 0,85%. Il verdetto è comunque netto: trionfa il Movimento 5 stelle, ma festeggia anche la Lega di Matteo Salvini, che supera il 17% e sorpassa Forza Italia, ferma intorno al 14%. Grande sconfitto è il Partito Democratico, che si attesta sotto la soglia del 20%, percentuale che esclude la fattibilità di una ‘larga intesa’ tra Renzi e Berlusconi per poter dare vita a una maggioranza. Un abisso da quel 40,8% conquistato alle elezioni europee del 2014, ma anche dalla “non vittoria” (29,5%) di Pier Luigi Bersani nel 2013.

    NORD VERDE E SUD GIALLO – È un’Italia di tre colori quella che esce dalle elezioni. Due però sono macchie molto più ampie dell’altra. Il Nord, esclusi Alto Adige e Valle d’Aosta, è blu, colore che rappresenta il centrodestra. Tutto il Sud, ma anche gran parte del centro, fino alle Marche, è del giallo attribuito al Movimento Cinque Stelle. È il rosso del centrosinistra che manca, in parte anche nelle regioni che votano tradizionalmente a sinistra come Emilia-Romagna e Toscana.

    L’AFFLUENZA – A votare, al contrario di quanto si temeva alla vigilia, sono stati in tanti: l’affluenza definitiva è stata di poco inferiore al 73%, contro il 75,27% del 2013, quando però si è votato in due giornate. I dati definitivi del Viminale sull’affluenza registrano il 72,92% per la Camera e il 72,99% per il Senato. Per quanto riguarda il dato suddiviso per regioni, si è votato di più in  Veneto (il 78,85% degli aventi diritto), poco più dell’Emilia-Romagna (78,29%) seguita dall’Umbria (77,96%). Si è votato di meno al Sud: fanalino di coda la Sicilia (63,00%), poi la Calabria (63,50%), Sardegna terz’ultima (65,76%). Infine, il dato su Lombardia e Lazio, dove si è votato anche per le regionali: in Lombardia è andato alle urne il 73,07% (il 72,04% a Milano), nel Lazio ha votato 66,46% (il 65,43% a Roma).degli elettori.

    LE STIME SUI SEGGI – L’esito delle elezioni politiche secondo gli ultimi dati, indicano che al centrodestra andrebbero, secondo le stime, 250-260 seggi alla Camera (con la Lega maggioritaria all’interno della coalizione rispetto a Forza Italia) e 130-140 seggi al Senato. Al M5s andrebbero, secondo le stime, 230-240 seggi alla Camera e 110-120 seggi al Senato. Staccatissimo il centrosinistra guidato dal Pd con circa 110-120 seggi alla Camera e 45-55 seggi al Senato. Le maggioranza politica necessaria alla Camera è 316 seggi, mentre al Senato e di 158 seggi. Nessuna forza politica raggiungerebbe il 40%, soglia indispensabile per formare un governo. E i numeri delle possibili coalizioni del futuro sono un rebus.

    ORA LA PALLA PASSA A MATTARELLA – Questo è il quadro che si presenterà davanti al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. È chiaro che Mattarella dovrà tener conto del fatto che il M5S ha vinto le elezioni, ma non potrà dare l’incarico a Di Maio, a meno che il leader di Pomigliano gli si presenti con i voti (almeno una proposta suffragata da qualche ragionevole certezza) che gli mancano per governare. In sostanza, Di Maio dovrebbe salire al Colle con in tasca il “sì” di qualcuno (partito o gruppo di parlamentari) disposto ad appoggiare il suo governo.

    RENZI: MI DIMETTO, MA NON SUBITO. SALVINI: TOCCA A NOI. DI MAIO: ECCO LA REPUBBLICA DEI CITTADINI. Dopo il trionfo del Movimento 5 Stelle, il candidato premier pentastellato Luigi Di Maio ha parlato chiaro: “Oggi comincia la terza Repubblica – ha detto -. E sarà la Repubblica dei cittadini italiani”. Anche la Lega rivendica il suo risultato storico. Dopo aver superato per la prima volta Forza Italia, alla conferenza stampa post-voto in via Bellerio, Matteo Salvini si è presentato come candidato premier in pectore del centrodestra. “È stata una vittoria straordinaria che ci carica di responsabilità – ha detto -. La Lega ha vinto nel centrodestra e rimarrà alla guida del centrodestra”. Discorso diverso per Matteo Renzi, che dopo la batosta del Pd, ha annunciato le sue dimissioni. Che, però, non saranno  immediate: arriveranno solo dopo l’insediamento del nuovo governo. Annuciando il congresso e facendo sapere che sarà lui a gestire la prossima fase politica fino a dopo le consultazioni. Oltre a chiudere a eventuali inciuci: “Siamo all’opposizione, non faremo la stampella agli estremisti”. Parole che hanno destato, però, polemiche all’interno del partito.  “La decisione di Renzi di dimettersi – ha detto il capogruppo Pd Luigi Zanda – e contemporaneamente rinviare la data delle dimissioni non è comprensibile. Serve solo a prendere ancora tempo”.

    COSA SUCCEDE ORA – Il primo passo in assoluto è quello, per i nuovi eletti, d i registrarsi in Parlamento. Questo avverrà tra l’8 ed il 9 di marzo. Per il prossimo 23 marzo è prevista la prima seduta con le nuove Camere. Questa sarà incentrata alla proclamazione degli  eletti e all’elezione dei presidenti nuovi. Entro il 25 marzo, i parlamentari devono aver comunicato a quale gruppo appartengono. Previste tra fine marzo ed inizio aprile le dimissioni di Paolo Gentiloni.

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  • Elezioni Politiche 2018Italia al voto il 4 marzo

    Elezioni Politiche 2018
    Italia al voto il 4 marzo

    Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha sciolto Camera e Senato: la XVII legislatura è finita, è iniziata formalmente la campagna elettorale

    Elezioni politiche 2018 all’estero

    Roma – Il 28 dicembre scorso, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha firmato il decreto per lo scioglimento delle Camere, che formalmente mette fine alla XVII legislatura. Il Presidente ha sciolto il Parlamento dopo essersi consultato al palazzo del Quirinale con il Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, e successivamente con la Presidente della Camera, Laura Boldrini, e il presidente del Senato, Pietro Grasso. Nella successiva seduta del Consiglio dei ministri organizzata a Palazzo Chigi, il governo ha deciso la data delle elezioni per il nuovo Parlamento: domenica 4 marzo 2018, dalle ore 7 alle ore 23. Si è aperta, di fatto, la campagna elettorale che porterà alla formazione del prossimo Parlamento entro il 23 marzo.

    tappe

    3 GOVERNI – La XVII legislatura ha visto alternarsi, dal mese di marzo del 2013, tre diversi governi affidati prima a Enrico Letta (2013-2014) poi a Matteo Renzi (dal 2014 al 2016) e, durante l’ultimo anno, a Paolo Gentiloni. Ora il Premier continuerà il disbrigo della normale amministrazione e rappresenterà l’Italia nei consessi internazionali, continuando di fatto a governare anche in assenza di un Parlamento.

    RIPRESA ECONOMICA, MA NIENTE IUS SOLI – Paolo Gentiloni, nella consueta conferenza di fine anno, ha ricordato i punti salienti degli ultimi 5 anni di governo, mettendo in risalto la creazione di un milione di posti di lavoro e la ripresa economica. Non da ultimo l’accento è caduto sui diritti civili, con l’approvazione della legge sul fine vita, anche se manca all’appello lo ius soli, legge che non è stata discussa in Senato perché, si è giustificato Gentiloni, non avrebbe avuto i numeri sufficienti per essere approvata.

    LA LEGGE ELETTORALE SARÀ IL ROSATELLUM BIS – Alle prossime elezioni si andrà a votare con la nuova legge elettorale, il cosiddetto Rosatellum bis.  È un sistema misto maggioritario e proporzionale, che prevede 232 collegi uninominali per la Camera e 116 per il Senato, ciascuno dei quali avrà il proprio vincitore. A questi vanno aggiunti i collegi proporzionali – 63 per la Camera, 34 per il Senato – che eleggeranno i restanti parlamentari. Diciotto, infine, i deputati e senatori eletti nella circoscrizione Estero. Il Rosatellum prevede un candidato di coalizione e un listino bloccato legato a ciascuna lista, nessun voto disgiunto e una ripartizione dei seggi sul quale peseranno anche le cosiddette “quote rosa“. Sull‘unica scheda saranno riportati i nomi dei candidati per i collegi uninominali e plurinominali. Sotto al loro nome ci saranno i simboli della lista o delle liste collegate, corredate dei nomi dei candidati nel collegio plurinominale. Due le modalità a disposizione: mettendo un segno sulla lista il voto andrà alla lista stessa e al candidato sostenuto all’uninominale; mettendo un segno sul candidato all’uninominale il voto viene esteso automaticamente alla lista e, nel caso di coalizione, sarà distribuito tra le liste che lo sostengono proporzionalmente ai risultati delle liste stesse in quella circoscrizione elettorale. Ammesse le pluricandidature: ciascuna lista può presentare il suo candidato in un collegio uninominale e in massimo 5 plurimoninali. Nei collegi uninominali il seggio è assegnato al candidato che consegue il maggior numero dei voti. Per i seggi da assegnare alle liste nei collegi plurinominali, il riparto avviene a livello nazionale, con metodo proporzionale, tra le coalizioni di liste e le liste che abbiano superato le soglie di sbarramento. I partiti possono presentarsi da soli o in coalizione. La coalizione è unica a livello nazionale. I partiti in coalizione presentano candidati unitari nei collegi uninominali. Lo sbarramento è al 3% per le singole liste e al 10% per le coalizioni. Per le coalizioni non vengono comunque computati i voti dei partiti che non hanno superato la soglia dell’1%. Se una lista non raggiunge il 3% ed è parte di una coalizione i voti vengono, a quel punto, “dirottati” al partito prevalente all’interno dell’alleanza.

    AL VOTO ANCHE PER LE GIUNTE DI LAZIO E LOMBARDIA – Via libera all’Election day. Il 4 marzo, oltreché al voto per rinnovare la Camera dei deputati e il Senato, gli elettori di Lazio e Lombardia sceglieranno anche il nuovo presidente della Regione. Il Ministero dell’Interno ha reso noto, infatti, che “il presidente Zingaretti e il prefetto di Milano Lamorgese, sentito anche il presidente Maroni, hanno fissato per domenica 4 marzo 2018 la data di svolgimento delle elezioni regionali nel Lazio e in Lombardia”.

    Fi, Lega, Fdi e 4º polo: centrodestra di nuovo unito

    voto-2018-1

    Berlusconi, Salvini e Meloni finalmente insieme: intesa su vincolo di mandato,
    candidature, quarta gamba e riforma pensionistica. La coalizione già vola nei sondaggi

    MILANO – È terminato dopo circa 4 ore il vertice dei leader del centrodestra Matteo Salvini, Giorgia Meloni che, il 7 gennaio scorso, si sono incontrati ad Arcore, a casa di Silvio Berlusconi, per fare il punto sul programma da presentare agli elettori.

    IL PROGRAMMA – Meno tasse, meno burocrazia, meno vincoli dall’Europa, più aiuti a chi ha bisogno, più sicurezza per tutti, riforma della giustizia e giusto processo, realizzazione della flat tax, difesa delle aziende italiane e del Made in Italy, imponente piano di sostegno alla natalità, controllo dell’immigrazione: saranno questi – si legge nel comunicato congiunto diffuso al termine del vertice – i primi passi dell’azione di governo di Centrodestra che uscirà dalle politiche del prossimo 4 marzo.

    VIA LA LEGGE FORNERO – Salvini ha chiesto e ottenuto dagli alleati l’impegno ufficiale a rivedere “il sistema pensionistico cancellando gli effetti deleteri della Legge Fornero”. Tra le priorità anche l’adeguamento delle pensioni minime a mille euro, il codice di difesa dei diritti delle donne e la revisione del sistema istituzionale col principio del federalismo e presidenzialismo.

    COALIZIONE A QUATTRO – Ufficializzata la composizione della coalizione a quattro con Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e quarto Polo. Tra le decisioni anche quella di costituire due delegazioni comuni, che si incontreranno per definire i dettagli del programma e dei collegi. Al vertice è stato dato il via libera alla cosiddetta ‘quarta gamba’ del centrodestra, ma escludendo dalle candidature quei nomi che non sono condivisi da tutti i leader dei tre principali partiti. Lo si è appreso da fonti qualificate. In particolare il ‘veto’ riguarderebbe figure come l’ex leghista Flavio Tosi e l’ex montiano Enrico Zanetti, sui quali il segretario leghista ha posto da tempo il suo veto. I tre leader si rivedranno “presto” e hanno espresso soddisfazione sulla “piattaforma programmatica”. A proposito del programma, i partecipanti si sono dichiarati soddisfatti a proposito della “piattaforma di lavoro ampia” e l’incontro è stato definito “lungo, proficuo e approfondito”.

    LA SCELTA DI MARONI – Sulle regionali la coalizione conferma che si presenterà con candidati comuni e condivisi. Per quanto riguarda la Lombardia, il presidente uscente, Roberto Maroni, non si candiderà per un secondo mandato “per motivi personali”. A succedergli nelle elezioni del 4 marzo dovrebbe essere l’ex sindaco di Varese, il leghista Attilio Fontana.

    SONDAGGI: CENTRODESTRA IN VANTAGGIO – I tre leader si sono presentati al primo vertice sull’onda dei sondaggi che vedono il centrodestra in nettissimo vantaggio. In base all’elaborazione Youtrend per il Senato (che La Stampa ha pubblicato in esclusiva), Forza Italia e Lega potrebbero portare a casa un bottino cospicuo: una settantina di seggi maggioritari a cui si aggiungerebbero 68 collegi conquistati con il proporzionale. La somma fa 137: significa che a Berlusconi, Salvini e Meloni basterebbero una ventina di senatori in più per avere la maggioranza assoluta a Palazzo Madama.

    Renzi (Pd): “Puntiamo al 25% di Bersani”

    Roma – “Sarò candidato a Firenze nel collegio uninominale e poi in Campania e Lombardia nel proporzionale”. Matteo Renzi, segretario Pd, ha annunciato in un’intervista in quali collegi si candiderà alle elezioni del prossimo 4 marzo. Sarà candidata anche Maria Elena Boschi, “in più posti come tutti i dirigenti del partito”, ha spiegato il segretario Pd. Abbassa l’asticella l’ex Premier. L’obiettivo è il 25% ottenuto da Bersani nelle scorse elezioni, quel risultato che lo stesso Renzi giudicò una sconfitta: sono lontani insomma i tempi del “popolo del 40%”, quello che lo votò alle elezioni europee, momento di maggiore consenso per lui e per il Pd.

    OTTIMISMO – Tuttavia non è pessimista: “La vittoria dipende dal nome del presidente del consiglio: se sarà un uomo del Pd sarà una vittoria per il Pd e per l’Italia: noi, con tutti i nostri limiti, abbiamo la squadra migliore”. Centrodestra in vantaggio? “Non credo, è una partita a tre, nel maggioritario sono in vantaggio loro, ma assegna solo un terzo dei seggi. La partita è aperta, e i due mesi finali sono decisivi per ribaltare i pronostici”.

    BERLUSCONI – “Berlusconi ha governato più di Andreotti, Moro e De Gasperi, e ha combinato molto poco: è un pericolo per l’economia”, ha detto, ricordando i dati dello spread e dei posti di lavoro dell’ultimo governo di centrodestra.

    M5S – Stoccate anche per i grillini: “Hanno incarnato una grande domanda di novità, ma ci sono contraddizioni che non si possono non vedere, come nel caso dei rifiuti di Roma: non si possono provare i 5 Stelle al governo, il Paese non è una macchina da provare in concessionaria”.

    GRASSO – Toni duri anche contro Liberi e Uguali: “Ogni voto dato a loro è un voto dato a Salvini, fa scattare il seggio a lui e non alla Boldrini”. Poi, sulla proposta di abolire le tasse universitarie: “Un favore ai ricchi e ai fuori corso, un norma proposta da Grasso ma pensata per Di Maio”, ha ironizzato.

    SALARIO MINIMO LEGALE – “Stiamo lavorando a una proposta per introdurre un salario minimo orario sotto il quale non si può scendere, come avviene in tutta Europa”. Ci sta lavorando – ha spiegato Renzi – Tommaso Nannicini, un economista della Bocconi: dovrebbe essere a nove o dieci euro.

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